Django, la recensione delle prime due puntate

La nostra recensione delle prime due puntate di Django, serie western diretta da Francesca Comencini

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Django, la recensione delle prime due puntate presentate alla Festa del Cinema di Roma

Dimenticatevi il Django di Corbucci. E dimenticatevi pure Django Unchained di Quentin Tarantino: Django di Francesca Comencini è un’altra cosa. Sì è vero, c’è la famosa bara che il personaggio di Franco Nero trascinava con sé insieme al mistero che conteneva al suo interno, ma qui è solo un omaggio e ha tutta un’altra funzione - così come anche qui, come in Tarantino, si affronta il tema della schiavitù e dello scontro tra visioni del mondo conservatrici e progressiste. Ma sostanzialmente Django di Francesca Comencini, ed è questo il suo bello, ripropone la storia di Django assumendolo come un universo narrativo di riferimento per poi scardinarlo, rimescolando tutti gli elementi tipici del genere (ci sono gli indiani, il petrolio, la figura dello straniero, l’idea di una comunità chiusa da proteggere) in una serie che sostanzialmente si vota all’idea di dramma relazionale vestita da western.

Siamo in Texas nel 1872, sette anni dopo l’abolizione della schiavitù. Un tempo troppo ristretto perché la società americana abbia assorbito il trauma della guerra civile e fatto germinare nuovi ideali morali (il razzismo è ancora molto forte): e così un ex-schiavo, John Ellis (Nicholas Pinnock) e un’orfana, Sarah (Lisa Vicari) decidono insieme (questo è l’antefatto) di fondare New Babylon, una cittadina arroccata in un immenso cratere nel terreno e circondata da mura, “dove tutti possono essere uguali”. In questo esperimento di società pseudo-anarchica gli ex-schiavi afroamericani convivono con i bianchi, i reietti della società e chiunque sia disposto a lasciare le sue armi all’ingresso per passare una serata a New Babylon spendendo un po’ di soldi. In tutto questo la vera protagonista non è Django ma Sarah, ormai ventenne, che con l’arrivo di Django (Matthias Schoenaerts) a New Babylon deve scontrarsi con un outsider che evocherà fantasmi del passato dentro di lei.

Già questo setting iniziale costruisce benissimo il mood e l’idea di Django, una serie in cui i personaggi sono ben calibrati, centrati, ognuno con il suo arco narrativo già piuttosto definito e un conflitto aperto tutto da scoprire. Il personaggio che però gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli rendono più promettente (in senso narrativo e di violenza…) è quello dell’antagonista, una incredibile Noomi Rapace che interpreta Elizabeth, la gran Signora e capa di Elmdale, una cittadina invece benestante e conservatrice, proibizionista e fortemente cattolica, che ci viene fatto capire ha dei conti in sospeso con Ellis e la terra che abita.

La prima puntata è ahimé molto più debole della seconda - e questo è un vero peccato, visto che un pilot di serie ha il compito di introdurci al mondo e agganciarci il più in fretta possibile alla visione. Il problema di immersione in questo affascinante mondo finzionale è dato dalla introduzione un po’ confusa, con tra l’altro una lunga sequenza in un saloon dove la fotografia un po’ posticcia dà l’idea molto forte di star guardando un teatro di posa e non una realtà immaginaria. Nonostante questo la serie si riprende subito (già a metà della prima puntata) con la sua atmosfera da western terreno e terrestre, dove il senso degli elementi naturali e i loro effetti: ci sono un sacco di pioggia, di fango, di terra che sporca tutti gli abiti dei personaggi. Non c’è un lavoro da parte di Comencini sui grandi paesaggi ma su un’idea di realtà angusta e spigolosa, dove dal buio è sempre possibile un attacco. Un’atmosfera a tratti dark che però funziona benissimo sia con la spinta da serie relazionale e un po’ strappalacrime, sia con l’idea di conservare il più possibile tutti gli elementi tipici del western classico.

Il cuore della serie è infatti (per ora) come la violenza e il moralismo in un mondo governato dalla legge del più forte influenzino i rapporti umani più intimi e personali. Questo già è un esempio di come in Django il western viva molto per sublimazione dei suoi concetti base, ma basti pensare che la cittadina di New Babylon di western ha ben poco, sembra più una realtà distopica fatta di costruzioni in legno storte e sconnesse, quasi di palafitte. Con questo western sublimato e distorto ritroviamo però, con un effetto di giusta rassicurazione, una bellissima commistione (riusciamo bene ad orientarci nel mondo che ci viene raccontato) con il western classico. Elmdale è infatti la tipica cittadina da John Ford, ci sono gli indiani, c’è lo straniero che arriva a scombinare gli equilibri di una comunità, l’idea di un passato irrisolto, l’idea di una giustizia fatta “da sé” dai personaggi. Tutte cose che chi è appassionato di western troverà subito familiari.

Il citazionismo della Comencini è veramente contenuto, molto obliquo e raffinato nei suoi riferimenti: c’è un pizzico di Sergio Leone (i dettagli sugli occhi), un po’ di Corbucci (il modo in cui viene vestito Schoenaerts, e come dicevamo l’uso dell’iconica bara di Django), e forse anche un po’ del Sam Raimi di Pronti a morire (per il personaggio di Noomi Rapace), ma Django rimane sempre ben fermo nei suoi confini (o meglio nelle sue frontiere…) creando qualcosa che funziona sempre da sé e non per dipendenza da altri mondi.

Già nelle prime due puntate assistiamo a un paio di sequenze veramente molto ben fatte, piene di azione e di quel dinamismo da scontro a fuoco da vecchio West che farà impazzire gli spettatori più cinefili (quella nel bordello e quella ad Elmdale). In un formato narrativo dove ai flashback si alternano spazi di presentazione e di concentrazione sui singoli personaggi e le loro reciproche relazioni, Django fa ben promettere verso una narrazione elegante e fluida dove la polverosa epica del West si apre a questioni del mondo di oggi. Come, d’altronde, il western ha sempre fatto…

Siete d’accordo con la nostra recensione di Django? Scrivetelo nei commenti!

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