Django, la recensione delle prime due puntate
La nostra recensione delle prime due puntate di Django, serie western diretta da Francesca Comencini
Django, la recensione delle prime due puntate presentate alla Festa del Cinema di Roma
Siamo in Texas nel 1872, sette anni dopo l’abolizione della schiavitù. Un tempo troppo ristretto perché la società americana abbia assorbito il trauma della guerra civile e fatto germinare nuovi ideali morali (il razzismo è ancora molto forte): e così un ex-schiavo, John Ellis (Nicholas Pinnock) e un’orfana, Sarah (Lisa Vicari) decidono insieme (questo è l’antefatto) di fondare New Babylon, una cittadina arroccata in un immenso cratere nel terreno e circondata da mura, “dove tutti possono essere uguali”. In questo esperimento di società pseudo-anarchica gli ex-schiavi afroamericani convivono con i bianchi, i reietti della società e chiunque sia disposto a lasciare le sue armi all’ingresso per passare una serata a New Babylon spendendo un po’ di soldi. In tutto questo la vera protagonista non è Django ma Sarah, ormai ventenne, che con l’arrivo di Django (Matthias Schoenaerts) a New Babylon deve scontrarsi con un outsider che evocherà fantasmi del passato dentro di lei.
Già questo setting iniziale costruisce benissimo il mood e l’idea di Django, una serie in cui i personaggi sono ben calibrati, centrati, ognuno con il suo arco narrativo già piuttosto definito e un conflitto aperto tutto da scoprire. Il personaggio che però gli sceneggiatori Leonardo Fasoli e Maddalena Ravagli rendono più promettente (in senso narrativo e di violenza…) è quello dell’antagonista, una incredibile Noomi Rapace che interpreta Elizabeth, la gran Signora e capa di Elmdale, una cittadina invece benestante e conservatrice, proibizionista e fortemente cattolica, che ci viene fatto capire ha dei conti in sospeso con Ellis e la terra che abita.
Il cuore della serie è infatti (per ora) come la violenza e il moralismo in un mondo governato dalla legge del più forte influenzino i rapporti umani più intimi e personali. Questo già è un esempio di come in Django il western viva molto per sublimazione dei suoi concetti base, ma basti pensare che la cittadina di New Babylon di western ha ben poco, sembra più una realtà distopica fatta di costruzioni in legno storte e sconnesse, quasi di palafitte. Con questo western sublimato e distorto ritroviamo però, con un effetto di giusta rassicurazione, una bellissima commistione (riusciamo bene ad orientarci nel mondo che ci viene raccontato) con il western classico. Elmdale è infatti la tipica cittadina da John Ford, ci sono gli indiani, c’è lo straniero che arriva a scombinare gli equilibri di una comunità, l’idea di un passato irrisolto, l’idea di una giustizia fatta “da sé” dai personaggi. Tutte cose che chi è appassionato di western troverà subito familiari.
Il citazionismo della Comencini è veramente contenuto, molto obliquo e raffinato nei suoi riferimenti: c’è un pizzico di Sergio Leone (i dettagli sugli occhi), un po’ di Corbucci (il modo in cui viene vestito Schoenaerts, e come dicevamo l’uso dell’iconica bara di Django), e forse anche un po’ del Sam Raimi di Pronti a morire (per il personaggio di Noomi Rapace), ma Django rimane sempre ben fermo nei suoi confini (o meglio nelle sue frontiere…) creando qualcosa che funziona sempre da sé e non per dipendenza da altri mondi.
Già nelle prime due puntate assistiamo a un paio di sequenze veramente molto ben fatte, piene di azione e di quel dinamismo da scontro a fuoco da vecchio West che farà impazzire gli spettatori più cinefili (quella nel bordello e quella ad Elmdale). In un formato narrativo dove ai flashback si alternano spazi di presentazione e di concentrazione sui singoli personaggi e le loro reciproche relazioni, Django fa ben promettere verso una narrazione elegante e fluida dove la polverosa epica del West si apre a questioni del mondo di oggi. Come, d’altronde, il western ha sempre fatto…
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