Dispatches from Elsewhere: la recensione

Ingenuo in più momenti, Dispatches From Elsewhere nasconde un cuore sincero, ed è un esperimento televisivo interessante

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Dispatches from Elsewhere: la recensione

Tra The Game e Ai confini della realtà, tra Mr. Robot e Il fantastico mondo di Amélie, Dispatches From Elsewhere è quel tipo di storia di cui bisogna anticipare il meno possibile. Si tratta di un progetto che si racconta pian piano, aprendosi a ventaglio nell'arco di dieci episodi, e che solo nel finale svela il proprio disegno. Jason Segel, autore e protagonista dello show, ha riversato amore e passione nella serie AMC – da noi distribuita da Amazon Prime Video – e questo è un valore aggiunto che, almeno in questo caso, non può essere ignorato. Autoindulgente e ingenuo in più momenti, Dispatches From Elsewhere nasconde un cuore sincero, ed è un esperimento televisivo interessante.

La premessa della storia vede Peter, interpretato dallo stesso Segel, come un timido e represso impiegato. Nel mezzo del cammino di una vita alla quale sembra non voler chiedere più nulla, è avvicinato da un'agenzia misteriosa, la Jejune Institute. Così, quasi senza rendersene conto, ma indubbiamente affascinato dalla possibilità, prende parte ad un gioco, forse una missione, forse qualcos'altro, insieme ad altre tre persone. Si tratta di Janice, Simone e Fredwyinn, interpretati da Sally Field, Eve Lindley e Andre Benjamin. Tutti loro sono bloccati, secondo vari livelli di consapevolezza, all'interno di vite dalle quali non traggono una vera soddisfazione. Ognuno di loro sarà cambiato dall'esperienza.

Alla sua radice, che è facile intuire fin dal primo episodio, Dispatches from Elsewhere è la classica storia della ricerca di sé. Ogni persona è speciale di per sé, ma non lo è mai nel senso tradizionale del termine. Ognuno sembra pretendere per sé un ruolo straordinario nel grande ordine delle cose, secondo aspettative che non potranno mai del tutto essere soddisfatte. Perché la pressione degli obblighi schiaccia ogni istinto di libertà, perché è più facile indulgere nei propri difetti che voler bene ai propri pregi, perché è difficile sfuggire al giudizio altrui. Ma un gioco, un'amicizia, un semplice lampo di serendipità possono rappresentare quell'occasione di rinascita tanto attesa.

Tutte queste considerazioni però non hanno alcun valore di per sé. Possono suonare retoriche oppure autoindulgenti, e l'unico modo per dare loro concretezza è raccontare storie che vale la pena ascoltare, personaggi con i quali si può empatizzare. Dispatches from Elsewhere ci riesce in larga parte. Peter, Janice, Simone (lei in particolare) e Fredwynn sono bei personaggi, umani, imperfetti, e funzionano sia come singolo che come gruppo. La loro evoluzione nella serie basta a dare sostegno ad una mystery story che di per sé non conta nulla, se non come strumento per qualcosa di più personale. Davvero personale.

La serie viaggia su toni sopra le righe: fonde scambi veloci da commedia, caratterizzazioni esagerate, drammi personali, perfino la voce narrante di Octavio Coleman (Richard E. Grant), fondatore della Jejune, che si rivolge a noi guardando in camera. E tutto funziona e gira bene fin da subito. Esiste una metatestualità di fondo alla quale lo show si arrende fin dalla prima inquadratura, e che ci accompagnerà fino alla fine. Di per sé, è un trucco come lo sono tutti i meccanismi di finzione ai quali è piacevole abbandonarsi per il puro piacere della compagnia di certi personaggi. E mai come oggi lo spettatore è pronto a recepire uno stile di questo tipo.

D'altra parte Dispatches from Elsewhere rischia e inciampa. Forse per troppo amore, per una sincerità di fondo che rischia il tutto per tutto, puramente emotiva e senza difesa alcuna. Autoindulgente, ingenuo, troppo appassionato nel raccontare certe conclusioni. Eppure – del tutto involontariamente – puntuale, con le ultime immagini della serie, nel catturare un aspetto del momento storico che stiamo attraversando.

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La serie sarà disponibile su Amazon Prime Video dal 15 giugno.

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