Disobedience, la recensione

Non un grido e non un gesto clamoroso, Disobedience trasforma la disobbedienza in una maratona sofferta e complicatissima

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
Forse la cosa più bella di tutto Disobedience è il titolo. Così secco ed incisivo, così netto e chiaro, soprattutto così significativo in un melodramma mascherato da altro. Disobedience è la storia di due donne all’interno della rigida comunità ebraico ortodossa di Londra. Una è una rinnegata che scappò tempo addietro e ora torna per un lutto familiare, l’altra è una moglie modello, tra loro scatta una passione ovviamente proibitissima, anche se siamo ai giorni nostri, anche se siamo a Londra.

Una volta tanto il cuore di qualsiasi melodramma, cioè lo schema classico per il quale c’è tutta una società e un intero mondo di cui fanno parte i personaggi ad impedire il loro amore che sembra fregarsene e obbligarli a stare insieme, è una scusa per guardare invece il coraggio della disobbedienza. Sebastian Lelio è da sempre innamorato delle donne che vanno controvento (come si vede in una delle migliori scene di Una Donna Fantastica, il suo ultimo film) e Rachel McAdams, la più inquadrata delle due, proprio questo fa, incarna l’idea stessa della disobbedienza. E il passaggio in più che questo film fa è come leva alla disobbedienza la sua carica liberatoria, la furia e il piacere che nel pubblico può instillare, per contaminarla di amarezza. Disobbedire qui ha il sapore di una sconfitta, di un abbandono inevitabile.

Raccontare tutto ciò non è semplice per niente, non è semplice arrivare a rendere il senso profondo di rottura con il proprio ambiente, la difficoltà e il sacrificio che costa andare contro le regole di un microcosmo che vive di esse, ed è bellissimo come Lelio ci riesca con le immagini. Gli interni e gli esterni sono regolari, ordinati, tranquilli, calmi e tutti uguali, non sembra nemmeno Londra (è un quartiere benestante e residenziale) tanto è assente quell’idea anarchica e caotica delle metropoli. I personaggi vivono in quello che sembra un piccolo centro in cui tutti conoscono tutti e il controllo sociale è peggiore di qualsiasi polizia. Disobedience trova nel presente un luogo che funziona come il passato, come l’America bigotta dei padri fondatori.

Attraverso Rachel Weisz, la rinnegata che piomba nella comunità controvoglia e per poco tempo, Lelio crea le dimensioni dello sforzo di disobbedienza. Dal suo punto di vista questo mondo da cui è fuggita sembra impossibile da penetrare, tale è l’ordine che vi regna. È così antico, radicato, tradizionale e ubiquo che sembra impossibile scardinarlo. I melodrammi più pigri fanno in modo che i personaggi siano guardati di sguincio o con fare torvo dalle comparse, così comunicano che tutto un mondo osteggia il loro amore. Disobedience non lo fa mai, sono quasi i vialetti ordinati a guardarli male, la carta da parati, il servizio buono per la cena o i negozietti impeccabili.

Nonostante sia un film in cui la religione è il grande moloch che tutto ordina e tutto tarpa, la sensazione non è mai di trovarsi di fronte ad una battaglia contro l’oscurantismo, ma di una contro il mondo degli uomini, contro la società delle persone. Tutto grida conformismo tranne queste due donne, che con calma invidiabile e sofferenza trattenuta coltivano un amore clandestino quieto ma inarrestabile. Forse è questa la vera disobbedienza, non solo quella che prende la forma del grido di protesta o dei gesti eclatanti, ma quella sommessa che si misura in un lungo periodo e non in un’esplosione rabbiosa.

Continua a leggere su BadTaste