Disincanto (terza parte): la recensione

Alla terza parte, Disincanto fa sempre un po' di fatica a trovare una propria identità: la recensione della serie animata Netflix

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Disincanto (terza parte): la recensione

Alla terza parte (o prima parte della seconda stagione, fate voi), Disincanto fa sempre un po' di fatica a trovare una propria identità. Squilibrata com'è, c'era una certa curiosità nel voler sapere come la serie avrebbe portato avanti la storia dopo due parti che non avevano sciolto i nostri dubbi. La prima stagione iniziava a funzionare davvero solo alla fine, con l'arrivo in scena della madre di Bean. La seconda invece si adagiava su episodi autoconclusivi e faticava molto nella parte centrale. La terza parte è un po' un insieme di quei due approcci, e se non vi aveva conquistato fino ad ora non inizierà a piacervi adesso.

La storia centrale è più forte rispetto alla seconda parte e la trama orizzontale ha un'importanza maggiore. L'approccio rimane episodico, ma i personaggi sono quasi sempre in movimento. Ritroviamo Bean, Luci e Elfo dove li avevamo lasciati, insieme in un luogo oscuro e pericoloso. La storia mette nettamente al centro la principessa rispetto ai due comprimari, e si può dire che più che in passato questa è la sua stagione. Bean riflette molto su se stessa in queste puntate, sui suoi difetti, sulle sue mancanze, sui motivi della sua solitudine. E si dà delle risposte che, per quanto non risolutive, la renderanno un personaggio più maturo alla fine.

La stagione corre lungo questo filo per dieci episodi, e nel mezzo ci sono intrighi di corte, famiglie disfunzionali, incantesimi, un ritorno alla zona steampunk e alcune nuove ambientazioni. Arrivato alla terza parte, e senza sapere quanto manca alla fine della serie, Disincanto è per definizione un prodotto che ormai dovrebbe aver capito cosa vuole fare da grande. Eppure è sempre mancato "qualcosa" a questa serie per potersi dire riuscita. Non che sia del tutto sbagliata, gli scenari sono apprezzabili, il percorso di Bean regala qualche momento di interesse, e qualche sorriso (ma non troppo di più) lo strappa.

Ma Disincanto non è mai una serie che parla un linguaggio così forte da lasciare il segno. Senza citare i primi Simpson, Futurama – che è comunque di venti anni fa – aveva da subito un ritmo e un passo che questa serie non raggiunge. Aveva una... passione per il racconto di sé che questa serie non ha. Il ritmo è più diluito perché le puntate sono troppo lunghe, il tono della serie è indefinito, le gag sono troppo dilungate rispetto alla loro semplicità (che è anche un problema tipico delle ultime stagioni dei Simpson). I personaggi sono generalmente antipatici (Elfo, Zog, Derek) ma, a voler trovare proprio il nucleo della critica, il fatto è che Disincanto lascia generalmente indifferenti. E di serie animate grottesche o bizzarre o respingenti ne abbiamo viste su Netflix (Tuca e Bertie, The Midnight Gospel, Big Mouth), ma ciò che le accomuna è il fatto di avere un'identità forte. Cosa che a questa serie di Matt Groening manca.

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