La recensione di Disco Boy, al cinema dal 9 marzo
Un film d’immigrazione ma non come siamo abituati a vederne. Il viaggio verso la Francia dall’Est Europa è solo la premessa di
Disco Boy e anche il morto che ci scappa nel viaggio è propedeutico a raccontare tutta la pratica dell’immigrazione e poi di integrazione nel paese di destinazione come una parabola di morte. La morte dietro al protagonista (è orfano), la morte del suo amico nel viaggio che lo segna, la morte intorno a sé quando entra nella Legione straniera per ottenere un passaporto francese. Tutta questa morte ha un effetto su questo ragazzo (interpretato da
Franz Rogowski) e lo aliena. Questa è l’idea più affilata di tutto il film: che l’alienazione, cioè la morte della propria identità passata, è come se fosse l’ultimo passaggio dell’integrazione in un nuovo mondo.
Un’altra delle diverse cose interessanti di Disco Boy infatti è il ribaltamento del solito conflitto. Non è in questo caso il paese d’arrivo a rifiutare il migrante (anzi la Legione straniera promette e assicura integrazione, in cambio di morte) è il migrante che comincia a rifiutare questa nuova destinazione, nuova vita e nuovo mondo. Lo farà lungo una seconda parte non a fuoco quanto la prima, che mescola questa trama con altri fatti e personaggi africani, che punta sull’astrazione e sulla disco del titolo. Musica elettronica e i neon di Hélène Louvart (che gli sono valsi l’orso d’oro per il miglior contributo tecnico) per raccontare una specie di perdita di sé tra il tribale e il moderno, la fusione con un altrove e un momento di trascendenza che chiude il cerchio per questo protagonista.
È raccontato bene
Disco Boy, almeno fino a quando lo vuole, quando invece inizia a cercare con maggiore insistenza una dimensione superiore (sia per il personaggio, che per il film stesso), arranca di più e mostra un po’ di fatica. Quando comincia la deriva mentale del suo protagonista, tra violenza criminale, ricordi di violenza perpetrata, morti lasciati dietro e ipnosi del ballo, anche
Disco Boy sembra più ondivago, meno concentrato e così desideroso di entrare in contatto con un senso superiore da cercarlo ovunque. Il risultato è stimolante più visivamente che concettualmente.
Di cose da dire ne ha non poche. I mezzi per dirle li padroneggia. È la misura a mancargli.