Dirk Gently - Agenzia di investigazione olistica (seconda stagione): la recensione
La seconda stagione di Dirk Gently sfrutta i topos della fiaba per tessere un intreccio teso e serrato, in cui caos e ordine si mescolano
Il divario tra ambizione personale e desiderio di agire secondo coscienza è solo uno tra i molti temi presenti nelle dieci nuove puntate della serie, affrontati con la consueta miscela di comicità surreale e sagace riflessione sui rapporti interpersonali. A distanza di un anno, Dirk Gently sembra aver imparato più di una lezione rispetto a una prima stagione tanto caleidoscopica quanto confusionaria.
Come tutto ciò vada a fondersi con la nostra realtà è l'interrogativo su cui Dirk Gently (Samuel Barnett) e Todd Brotzman (Elijah Wood) indagano - accompagnati come di consueto dalla valorosa Farah Black (Jade Eshete) e seguiti, a breve distanza, da Bart (Fiona Dourif) - nella speranza di ritrovare, peraltro, Amanda (Hannah Marks), sorella di Todd in rotta col fratello e in fuga dall'Ala Nera assieme a Vogel (Osric Chau).
Rispetto a una prima stagione forte dell'indiscutibile fascino della novità e più marcatamente adamsiana nei suoi intrecci, per il suo ritorno Dirk Gently sceglie una via più aspra e, apparentemente, destinata a un subitaneo fallimento: quella della riproposizione di un immaginario infantile in chiave colorata, ridicola e grottesca. Di per sé, non avremmo motivo di appassionarci alle vicende di un regno la cui estetica ricorda - a ragion veduta, per carità - i disegni sghembi di un bimbo dallo scarso talento grafico.
Ecco però subentrare l'intuizione vincente del ribaltamento, che non solo salva l'intera stagione, ma riesce a stagliarla persino al di sopra della pur buona precedente annata: nel solco già tracciato di un sapiente e vivido tratteggio dei comprimari, Dirk Gently ci mostra ben presto come la collisione tra i due mondi - quello reale e quello ideato, congiunti da un oscuro limbo che richiama alla mente Stranger Things (e con esso Under the Skin) e The OA - evidenzi il paradosso dei rispettivi abitanti.
Il cielo di Wendimoor è occupato da una luna antropomorfa di meliésiana memoria, e nella foresta troviamo alberi di marshmellow; eppure, sia i Dengdamor che i Trost sono valorosi, intelligenti, organizzati, caparbi e talvolta sanguinari. A dispetto delle loro calzamaglie, delle capigliature improbabili e dei bottoni nelle barbe, essi rispecchiano le caratteristiche dell'età adulta, laddove il mondo reale sembra invece invaso di figure confuse, pasticcione, spesso pavide e inclini al facile entusiasmo. Bambini nel corpo di adulti, prima tra tutti Susan Boreton (Amanda Walsh), improbabile e impeccabile villain di questa stagione assieme all'istrionico Mago.
In questa casalinga frustrata ravvisiamo lo spettro di molti bambini buoni divenuti pessimi adulti a seguito dello scontro con la dura realtà che gli anni portano con sé: ecco dunque Suzie impossessarsi di una bacchetta magica che non risistema la sua vita di moglie e madre, ma le consente di ripiombare nel sogno incantato della sua infanzia, in veste di reginetta di un mondo irreale che le circostanze bizzarre della storia rendono, improvvisamente, accessibile.
Le medesime puerilità, seppur declinate in positivo, emergono da altre due figure introdotte in questa stagione e che, secondo il rodato schema delle carte di Propp, aiutano Dirk, Todd e Farah nella risoluzione del caso. Trattasi di due ufficiali di polizia, lo sceriffo Sherlock Hobbs (Tyler Labine), che certo non può vantare il medesimo acume del proprio quasi-omonimo, e la sua vice Tina Tevetino (Izzie Steele), uscita non proprio brillantemente dal tunnel della droga.
Per i due agenti, l'approccio all'indagine assume la forma di un grande gioco, e lo sprezzo del pericolo esula, per una volta, da ogni eroismo: seguire Dirk e la sua squadra nel tortuoso mistero che affonda le proprie radici nell'America rurale degli anni '60 sembra rappresentare, per entrambi, una variante del ritorno all'infanzia già inseguito da Suzan.
Non è in loro, né tantomeno nei già fin troppo maturi abitanti di Wendimoor che si può notare il cambiamento che costituisce il motore sentimentale della stagione, bensì negli ormai collaudati protagonisti, le cui cicatrici già esposte nella prima stagione trovano qui rimedi più o meno efficaci: il senso di colpa attanaglia un inedito Dirk incupito, per la prima volta spaesato di fronte al caos che ha portato nella vita dell'amico Todd; quest'ultimo insegue il miraggio della redenzione dalla menzogna attraverso una pacificazione con la sorella troppo a lungo ingannata, ed è al contempo tormentato da continui attacchi di pararibulite (la malattia immaginaria da cui è affetta anche Amanda).
Entrambi gli uomini troveranno in extremis un balsamo alle proprie fragilità, al contrario della stravolta Bart che, perso troppo presto il conforto della nascente amicizia con Panto Trost (Christopher Russell), testimonia il tragico tradimento di Ken (Mpho Koaho), la cui scalata dei vertici dell'Ala Nera è forse la linea narrativa più psicologicamente perturbante di tutto l'intreccio.
Certo, rispetto ai cliffhanger del primo season finale, quest'anno la storia si chiude su note più positive, con Dirk e i suoi amici sorridenti dinnanzi all'insegna della neonata Agenzia Olistica del titolo; il sapore malinconico del presagito congedo si avverte, ma la vitalità di Dirk Gently è tutta lì, in quegli impavidi folli slanci che catapultano Hugo nel limbo tra i due mondi, Bart tra le mura dell'Ala Nera e Ken a capo dell'organizzazione da cui è fuggito.
La brusca cancellazione della serie da parte della BBC America tarpa le ali a un prodotto tra i più audaci e ben congegnati che il ridondante catalogo di Netflix - che ha distribuito lo show in tutto il mondo a inizio gennaio - possa offrire ai suoi utenti. Una fine precoce e immeritata, figlia di una campagna marketing del tutto inadeguata alla portata del progetto, che ne ha inficiato gli ascolti durante la messa in onda originaria e penalizzato la visibilità all'interno dell'affollata piattaforma di streaming.
Duole dover salutare Dirk Gently, i cui meriti spaziano dalla già elogiata vividezza dei personaggi - principali o secondari che siano - all'ammirevole tenuta ritmica, garantita da un'alternanza di situazioni mirabilmente calibrata. Vale la pena, inoltre, ricordare la finalmente disinvolta rappresentazione delle minoranze etniche e di orientamento; non per niente, l'unica storia d'amore della stagione coinvolge due personaggi dello stesso sesso, il principe Silas Dengdamor (Lee Majdoub) e il contadino Panto.
Per un prodotto che ha conciliato coraggio e godibilità, distaccandosi dall'impegnativa paternità incompiuta di Douglas Adams per imparare ben presto a camminare - e correre - sulle proprie gambe, era legittimo aspettarsi un'uscita di scena meno prematura; consci della fortuna di averne potuto apprezzare questi diciotto episodi, non ci resta che seguire le orme del piccolo Francis (Dylan Schombing) e disegnare, nella nostra mente, una terza stagione che temiamo possa restare solo il più rutilante dei sogni irrealizzati.