Il Diritto di Uccidere, la recensione
Il film più equilibrato degli ultimi anni sul sistema che regola la guerra moderna e il sistema di esposizione della responsabilità politica è Il Diritto di Uccidere
È difficilissimo scrivere e poi mettere in scena un film come Il Diritto di Uccidere, un dramma da camera tutto dialoghi e interazioni teatrali, giocato in almeno 4 location principali diverse che le tecnologie digitali accorciano rendendole un luogo unico. È difficilissimo perché in realtà, oltre alla scrittura estremamente delicata (visto il tema) c’è anche un lavoro sul meno teatrale degli espedienti di linguaggio, il montaggio, per lavorare sul tempo. Perchè se lo spazio viene compresso, dando l’impressione che persone in luoghi diversi siano tutte nello stesso posto, il tempo invece è dilatato all’inverosimile e la decisione se sparare o no un missile contro un obiettivo sensibile tramite drone, viene presentata come l’opposto di “premere un grilletto”. Un ginepraio di decisioni, scaricamento di barili, verifiche, implicazioni legali e direttive dall’alto sembrano frapporsi tra un colonnello e l’esecuzione del suo ordine.
Gavin Hood non nasconde di parteggiare per la tenerezza e i bambini, divertendosi a screziare i militari, eppure Il Diritto di Uccidere è così ben riuscito da posizionarsi in un territorio intermedio anche al di là della volontà di chi l’ha realizzato. Addirittura si permette una sottilissima ironia da incubo burocratico kafkiano! Questo film che ci arriva con molto ritardo e in una stagione non favorevole agli incassi è capace di dare conto con grande tale complessità di ciò che si cela dietro un grilletto premuto, senza fingere che il problema sia solo di chi lo preme (come faceva Good Kill) ma spiegando bene tutte le forze in campo e non dimenticandosi di porre una domanda finale, cioè di lasciare allo spettatore l’ultima valutazione sull’operato di quei personaggi che “barano”.