Die Hard: un Buon Giorno per Morire, la recensione

In questo quinto episodio John McClane parte per la Russia con l'obiettivo di salvare suo figlio. Dimenticando a casa l'energia e lo spirito originale della saga…

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Nota: a causa di un disguido organizzativo pubblichiamo la recensione con qualche giorno di ritardo rispetto all'uscita del film. Buona parte dei concetti qui espressi erano stati comunque riportati nella videorecensione pubblicata mercoledì 13 febbraio.

Il quinto episodio del franchise di Die Hard, che ha lanciato Bruce Willis come star del cinema d'azione un quarto di secolo fa, si discosta dal canone originale in maniera purtroppo poco convincente.

Visto puramente come un popcorn movie, Die Hard: un Buon Giorno per Morire fa il suo dovere, ovvero intrattiene, non annoia e anzi tratti diverte. John Moore (Max Payne) fa un uso forse esagerato (ma limitato alla prima metà del film) della shaky-cam, ma ci regala alcune sequenze d'azione molto spettacolari, in particolare un lungo inseguimento per le strade di Mosca (in cui McClane guida il suo veicolo letteralmente SOPRA le altre auto bloccate nel traffico, come un bambino che gioca con le automobiline) e una colossale e davvero ben fatta scena d'azione finale che coinvolge un elicottero. Ma visto come un episodio del franchise di Die Hard, il film dirotta la saga di John McClane verso una direzione poco chiara.

Tutta l'energia che Bruce Willis infondeva negli episodi precedenti si dissolve in un John McClane affaticato e mosso da motivazioni fumose. Il McClane che conoscevamo noi era un poliziotto di New York burbero, piuttosto volgare, violento e carico di ironia che difendeva il suo paese ma pensava soprattutto alla sua famiglia. In questo quinto episodio McClane si reca in Russia proprio per salvare il figlio (Jai Courtney), credendo si trovi nei guai, ma accortosi rapidamente che in realtà è un membro della CIA finisce per aiutarlo nella sua missione segreta. Passerà il resto del tempo ad ammazzare cattivi lamentandosi (inspiegabilmente, viste le premesse) di essere in vacanza e tendando di rinsaldare il rapporto con il figlio che si era da tempo logorato.

Moore è ben consapevole che si tratta di un film di Die Hard, e più volte cita sia visivamente che nelle situazioni (in particolare nell'ambientazione, pur moderna, di pseudo-guerra fredda) gli straordinari episodi di John McTiernan, ma non risulta all'altezza del suo eccellente predecessore quando, per esempio, Len Wiseman nel quarto film aveva deciso di calcare sull'ironia e sulla spettacolarità delle scene d'azione (in maniera riuscita, secondo chi scrive). Ma qui non abbiamo un Alan Rickman o un Jeremy Irons come villain, né un Samuel L. Jackson come "spalla" (Jai Courtney è tanto atletico quanto poco espressivo).
Il vero problema del film, comunque, è la sceneggiatura di Skip Woods, non solo poco fluida ma soprattutto ricca di buchi (perché McClane si comporta con la stessa spregiudicatezza di un poliziotto come se fosse a nella "sua" New York? Perché a Mosca non esistono le forze di polizia, per cui si può sostanzialmente fare quello che si vuole, in particolare nelle autostrade? E qualcuno ha fatto vedere a Woods su una cartina quanto realmente è distante Chernobyl da Mosca?). Inoltre, costringe McClane a lavorare in coppia come avveniva nel terzo episodio, ma con motivazioni diverse che anziché valorizzare i due personaggi e il loro rapporto, sembra castrare entrambi, in un malriuscito tentativo di "passare il testimone" a una nuova generazione di McClane.

Spostare lo scenario in Russia potrà infine essere molto utile agli incassi del film (Hollywood nota sempre di più l'importanza di alcuni mercati internazionali, non è un caso che molte nuove pellicole vengano parzialmente ambientate in Russia o Cina), ma sembra tradire la natura di moderno cowboy di una icona action tra le più note e amate del cinema americano.

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