Diciannove, la recensione: un film girato come si parla da giovani
L'idea migliore di Diciannove è nei suoi dialoghi e in come questi si riflettono nella struttura delle sequenze: un flusso di pulsioni e di esperienze.
C’è un’idea molto bella nei dialoghi di Diciannove che non vede spesso altrove. Diciannove sono gli anni del protagonista Leonardo. Gli amici, i parenti e i coinquilini che lo accompagnano hanno pochi anni più di lui. Il regista Giovanni Tortorici vuole parlare della giovinezza e della fatica del passaggio verso l’età adulta. Per farlo adotta una prospettiva anarchica, un po’ (troppo) legata alla Nouvelle Vague. Si cita tantissimo, e un po’ a caso, lo stile di Truffaut e Godard. Cambia continuamente il linguaggio visivo con cui viene raccontato il film.
Diciannove ha anche un senso di tragedia imminente che non si risolve, ma che è essenziale. Inizia con Leonardo che perde copiosamente sangue dal naso. Un’immagine impressionante che resta nella mente per tutto il resto del film. Perché succede? Questi minuti sarebbero l’inizio tipico di un film su una malattia. Diciannove non lo è. Si crea così inconsapevolmente una tensione verso il finale non da poco in quest’opera che, invece, è costruita all’opposto. Per raccontare paradossalmente il nulla, per vagare senza fine. Il senso di Diciannove sta proprio nel nel tentativo del suo protagonista di trovare una propria zona di vita. La crescita come tante esperienze accumulate.
Diciannove non è recitato particolarmente bene, non ha le emozioni che potrebbe dare un progetto di questo tipo. Eppure azzecca la cosa più importante: il suo protagonista. Si riesce a volergli bene, tanto bene, nei suoi scatti d’umore e nella sua supponenza, nelle contraddizioni e nella voglia di morire che gli viene alla prima difficoltà. Questo affetto che si costruisce col tempo è il cinema.