Diciannove, la recensione: un film girato come si parla da giovani

L'idea migliore di Diciannove è nei suoi dialoghi e in come questi si riflettono nella struttura delle sequenze: un flusso di pulsioni e di esperienze.

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C’è un’idea molto bella nei dialoghi di Diciannove che non vede spesso altrove. Diciannove sono gli anni del protagonista Leonardo. Gli amici, i parenti e i coinquilini che lo accompagnano hanno pochi anni più di lui. Il regista Giovanni Tortorici vuole parlare della giovinezza e della fatica del passaggio verso l’età adulta. Per farlo adotta una prospettiva anarchica, un po’ (troppo) legata alla Nouvelle Vague. Si cita tantissimo, e un po’ a caso, lo stile di Truffaut e Godard. Cambia continuamente il linguaggio visivo con cui viene raccontato il film.

La stessa struttura libera delle sequenze, si applica al modo in cui interagiscono i personaggi. Due amici fanno dei commenti grevi sulle ragazze, pochi secondi dopo sconfinano nelle diatribe letterarie, si infervorano per queste e chiudono la chiacchierata parlando di droga. Che trovata! In fondo è proprio così che percepisce e si racconta la vita da giovani, come un insieme di esperienze, di opinioni, di momenti slegati tra loro in attesa di trovare un senso nella vita adulta. I dialoghi sono fatti così, liberi, usati con gli amici per definire la propria personalità. Per emergere, ma anche per liberare il flusso non di coscienza, ma di pulsioni.

Diciannove ha anche un senso di tragedia imminente che non si risolve, ma che è essenziale. Inizia con Leonardo che perde copiosamente sangue dal naso. Un’immagine impressionante che resta nella mente per tutto il resto del film. Perché succede? Questi minuti sarebbero l’inizio tipico di un film su una malattia. Diciannove non lo è. Si crea così inconsapevolmente una tensione verso il finale non da poco in quest’opera che, invece, è costruita all’opposto. Per raccontare paradossalmente il nulla, per vagare senza fine. Il senso di Diciannove sta proprio nel nel tentativo del suo protagonista di trovare una propria zona di vita. La crescita come tante esperienze accumulate.

Il film risulta così un’opera che funziona meglio per singole sequenze che nel suo complesso. C’è un momento esilarante veramente riuscito in cui un esame andato male causa un’ossessione pesantissima nel ragazzo. Rifiuta il voto, nonostante sia buono, ma non perfetto, e studia come un matto per farla pagare al professore. Pessimi invece i momenti dove si prova a toccare il dramma, a ricondurre questi piccoli quadri ad un senso complessivo. Il punto di svolta finale è completamente fuori dal tono, con una sperimentazione visiva (che accompagna tutto il film) in stile pubblicità progresso anni ’90. Esattamente l’opposto di quello che si voleva ottenere. 

Diciannove non è recitato particolarmente bene, non ha le emozioni che potrebbe dare un progetto di questo tipo. Eppure azzecca la cosa più importante: il suo protagonista. Si riesce a volergli bene, tanto bene, nei suoi scatti d’umore e nella sua supponenza, nelle contraddizioni e nella voglia di morire che gli viene alla prima difficoltà. Questo affetto che si costruisce col tempo è il cinema.

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