Diamantino, la recensione

Una storia tra Portogallo, avidità, un finto Cristiano Ronaldo e trovate da cartoon, Diamantino forse non è una scoperta in sè ma di certo i suoi due registi lo sono

Critico e giornalista cinematografico


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Diamantino è pensato e modellato su Cristiano Ronaldo ma questo non significa che sia Cristiano Ronaldo. È modellato sul simbolo della ricchezza e del potere di un paese, il Portogallo, che (nel film) teme di tornare nell’oblio una volta conclusa la parabola di questo calciatore, è modellato per somigliare alla persona che immaginiamo come la punta della ricchezza, dello sfarzo, della moda, del glamour e dell’adesione ad un mondo di guadagni. Quindi in Diamantino non c’è la presa in giro di Cristiano Ronaldo ma semmai l’uso di quei valori e quelle idee che il mondo ha abbinato a lui. Insomma il protagonista è modellato sul famoso calciatore non per attaccarlo ma per parlare di quel mondo lì in maniera chiara.

Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt vogliono rappresentare infatti il contrasto grottesco tra l’ingenuità del potere e la scaltra furbizia di chi ne vuole abusare. Tutto nel film è scritto come in un cartone animato anche se nulla è disegnato. Tutto è scritto con un infantile piacere per l’estremizzazione dei caratteri e l’uso di un cotè da operetta, così che la lente del demenziale ci dica la verità senza fare sconti. C’è infatti una pubblicità cui Diamantino prende parte che lo mette nei panni di un antico portoghese che fa una tirata sovranista per favorire l’uscita del Portogallo dall’Unione Europea. Ci sono due sorelle gemelle che lo riempiono di angherie e ne sfruttano i guadagni per i loro biechi interessi. C’è una compagnia che cerca di clonarlo. C’è un’orfano che è in realtà una agente segreta. E ci sono dei cuccioli teneri.

Quella forse è davvero l’idea più forte di tutte. Che Diamantino, scemo com’è, in campo giochi bene non perché sia il genio che tutti dicono che è, ma perchè immagina tutto intorno a sé schiuma rosa e giganteschi teneri cuccioli di cane che gli balzano intorno, cosa che gli dà tranquillità. Non vede nemmeno gli avversari, solo i teneri cucciolini giganti che gli saltellano intorno in un immaginario che pare il trionfo della parte più kitsch dell’estetica LGBT.

Non ha senso ma è una trovata che in un secondo mette questo protagonista così lontano dalla realtà, dalla concretezza e dalla vita di tutti i giorni, che spiega bene che tipo sia, come i due registi abbiano preso la figura di un miliardario e l’abbiano reso un alieno che vive in un altro mondo, per il quale i migranti sono una scoperta improvvisa e commovente.

Certo non tutto in questo film fila, e c’è una tale fatica a chiudere la storia e arrivare alla fine che riesce a sfiancare anche lo spettatore. Ma è pur vero che tutto quel che ha da dire sul Portogallo, sull’avidità e sui legami umani, ma anche la maniera in cui usa questo idiot per niente savant, è forte.

Forse Diamantino in sé non è a tutti gli effetti una scoperta ma Abrantes e Schmidt di certo lo sono.

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