Diamantino, la recensione
Una storia tra Portogallo, avidità, un finto Cristiano Ronaldo e trovate da cartoon, Diamantino forse non è una scoperta in sè ma di certo i suoi due registi lo sono
Gabriel Abrantes e Daniel Schmidt vogliono rappresentare infatti il contrasto grottesco tra l’ingenuità del potere e la scaltra furbizia di chi ne vuole abusare. Tutto nel film è scritto come in un cartone animato anche se nulla è disegnato. Tutto è scritto con un infantile piacere per l’estremizzazione dei caratteri e l’uso di un cotè da operetta, così che la lente del demenziale ci dica la verità senza fare sconti. C’è infatti una pubblicità cui Diamantino prende parte che lo mette nei panni di un antico portoghese che fa una tirata sovranista per favorire l’uscita del Portogallo dall’Unione Europea. Ci sono due sorelle gemelle che lo riempiono di angherie e ne sfruttano i guadagni per i loro biechi interessi. C’è una compagnia che cerca di clonarlo. C’è un’orfano che è in realtà una agente segreta. E ci sono dei cuccioli teneri.
Non ha senso ma è una trovata che in un secondo mette questo protagonista così lontano dalla realtà, dalla concretezza e dalla vita di tutti i giorni, che spiega bene che tipo sia, come i due registi abbiano preso la figura di un miliardario e l’abbiano reso un alieno che vive in un altro mondo, per il quale i migranti sono una scoperta improvvisa e commovente.
Forse Diamantino in sé non è a tutti gli effetti una scoperta ma Abrantes e Schmidt di certo lo sono.