Diabolik, la recensione

A spaventare di questo Diabolik non è tanto la riuscita ma l'idea di intrattenimento che c'è dietro: priva di piacere e di eccitazione

Critico e giornalista cinematografico


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Con modelli di cinema di intrattenimento come questo è impensabile costruire un rapporto sano con il pubblico contemporaneo. Diabolik era un palese tentativo di flirtare anche in Italia con il cinecomic e con le proprietà intellettuali note, ma di farlo a modo nostro, come è corretto. Il prodotto finito fa venire dubbi serissimi sulla capacità del cinema italiano tradizionale (del quale sono esponenti i Fratelli Manetti, in attività da più di vent’anni) di dialogare con ritmo, intrattenimento, gioia di filmare e capacità di divertire un pubblico in cerca di cinema spettacolare. Che l’industria italiana sappia produrre cinema spettacolare lo sappiamo, perché lo fa per produzioni internazionali che vengono a girare da noi, che l’industria sappia concepirlo e girarlo è un altro paio di maniche e a giudicare da questo film e dal suo ritmo volutamente mortifero l’impressione è che non sappia proprio pensarlo.

Il Diabolik dei fratelli Manetti sceglie un registro denso e distaccato, in cui tutto avviene con una grande enfasi verso la spersonalizzazione dei personaggiIl Diabolik dei fratelli Manetti sceglie un registro denso e distaccato, in cui tutto avviene con una grande enfasi verso la spersonalizzazione dei personaggi. È una scelta penalizzante per tutti, in primis per gli attori, che faticano tantissimo a rimanere credibili con in bocca dialoghi di quel tipo che devono recitare con flemma e tempi compassati, ma anche per il comparto effetti visivi che lavora senza un montaggio che lo aiuti e anche per il trucco e i costumi (ottimi!) che arranca senza la sospensione dell’incredulità di una storia e dei personaggi che non sanno coinvolgere ma, anzi, in ogni momento ricordano di essere artificiosi. Anche solo le due storie che diventano una (l’emancipazione di Eva Kant dal suo passato e una rapina audace) sono malamente unite, lasciando non solo intuire la loro diversità ma facendo anche riprendere a tre quarti di film una storia che sembrava avviata alla conclusione.

Quanto di peggio, questo Diabolik non ha nessuna idea di cosa fare con il personaggio, ne copia tutti i trademark in uno sforzo di fan service, l’unica cosa a cui sembra ambire, e più in là non va. Racconta una origin story (quella del rapporto tra Diabolik ed Eva Kant) sulla quale sembra non avere nessuna idea né punto di vista, come sembra non aver nessuno sguardo su quel mondo, quell’idea di narrazione, quel tipo di personaggi o anche solo quello stile. Poteva essere in realtà una storia di avidità, una di femminismo o al contrario di maschilismo fuori tempo massimo, poteva essere un metaforone del vigilantismo o anche solo quella di due facce di una medaglia che si incontrano o mille altre cose. Diabolik ha un immaginario molto plasmabile. E invece riesce in un’impresa a suo modo difficile: non essere niente.

Anche l’espressionismo dei fumetti e l’esagerazione delle loro storie non si fa mai piacere narrativo, non costruisce mai una realtà parallela alla nostra (enfatizzata e in questo senso espressiva), è solo la resa concreta di quel che è stato disegnato. Perché gli espedienti di messa in scena sono quasi inesistenti, basti dire che la creazione di tensione è affidata costantemente alle musiche con una ripetitività che uccide ogni possibile suspense. Stesso dicasi per il montaggio in split screen della rapina, momento topico per Diabolik che viene invece ridotto a montaggino pedissequo. Nulla che possa ingaggiare con lo spettatore un po’ di dialettica o anche solo un viaggio nel divertimento. Non c’è né lo sguardo contemporaneo né il divertimento delle montagne russe.

Certo, c’è un’idea di lavorare sulla componente di “chirurgo del crimine” di Diabolik, visto come uno scienziato che lavora ostentando una precisione millimetrica, poca destrezza ma soprattutto sicurezza nei propri calcoli. Era un’idea, se non altro, ma a cosa serve quando tutto un intero film complotta per sradicare la credibilità da Miriam Leone (che pure sarebbe perfetta), da Valerio Mastandrea (che tira fuori dal cilindro l’impostazione giusta per Ginko) e Luca Marinelli (raramente in tutina, e determinato a fare qualcosa di tutta quella recitazione assente)? Come sì può immaginare un cinema commerciale su queste basi, quando l’impressione più forte che esce fuori dal film è che non ci sia niente da divertirsi?

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