Diabolik - Ginko all'attacco, la recensione

Il secondo film della serie dei Manetti su Diabolik conferma tutto quello che si era visto nel primo solo con molte più ambizioni

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Diabolik - Ginko all'attacco, al cinema dal 17 novembre

Stessa squadra creativa, stessa troupe, stesso cast (con Giacomo Gianniotti al posto di Luca Marinelli nel ruolo principale) e il risultato non sorprende nessuno che sia esattamente lo stesso del primo film, solo peggiorato da una serie di difficoltà maggiori. Diabolik - Ginko all’attacco è fedele all’impostazione della saga dei fratelli Manetti, cioè ricalcare il più possibile il fumetto anche a discapito di tutte quelle che sono le regole e le buone pratiche del cinema. Stavolta ne fa le spese il poliziesco perché questo film è sulla caccia a Diabolik più che sulla sua fuga o sui suoi colpi. Un film, in teoria, ancora più tecnico.

I personaggi risiedono ancora in un altrove, non sono stati cioè portati sulla Terra, non hanno una personalità umana ma hanno una specie di distacco che li rende lontani e astratti, sembrano non poter esistere al di fuori delle scene dei colpi, e così i rari momenti in cui vediamo la loro vita privata sono un disastro di inadeguatezza. Stavolta Eva Kant e Diabolik interagiscono di più (all’inizio e alla fine, mentre per il resto del film sono separati) e le note ordinarie di una ragazza che fa richieste al fidanzato più ombroso suonano subito fuori contesto con la natura altera e nobile della loro arte criminale. Ancora una volta sono loro esteticamente (anche più di prima perché Gianniotti ha pure il fisico giusto) ma non sono mai loro quando parlano o interagiscono.

Intorno agli attori una disposizione nelle inquadrature terribile (ancora una volta, insegue il fumetto originale senza pensare a cosa funzioni sullo schermo), una scrittura dei dialoghi folle (per sentenze, come nel fumetto, ma non come nel cinema) e le noiosissime e continue spiegazioni ammazzano ogni ritmo prima che l’azione compassata e gli inseguimenti condotti camminando non finiscano il lavoro. Una scena in un bar con protagoniste 5 ragazze, oscillante tra toni sexy, di commedia e poi da poliziesco duro, è forse l’esempio migliore della fatica nello scrivere questo film e poi nel metterlo in scena con queste ambizioni.

Tutto in Diabolik - Ginko all'attacco infatti è più ambizioso (perché dare a Monica Bellucci un accento da recitare? Perché utilizzare un filtro così forte ed evidente solo per le sue scene?) e anche se stavolta è la polizia protagonista, sempre esaltata nel suo lavoro e nella sua etica da continui complimenti a vicenda, mentre Diabolik è molto defilato, lo stesso non si crea l’atmosfera plumbea in cui poi le scelte da cinema di genere anni ‘70 abbiano un senso. Quando Ginko, che una vera malinconia ce l’ha grazie a Valerio Mastandrea, vive i suoi momenti romantici e perduti con uno score che richiama esattamente quelle atmosfere ingenue e immacolate, il senso che avrebbero momenti simili in film come Joss il professionista non si materializza, perché intorno a lui manca tutto quel mondo nero che rende significativo un momento al contrario così bianco. Al contrario invece l’amore tra Eva Kant e Diabolik, celebrato bevendo un Negroni alla luce del mattino con movimento di macchina che svela l’etichetta Campari, non ha proprio nessun senso da nessuna parte lo si prenda.

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