Detroit: Become Human, alla ricerca dell'anima - Recensione
Di esseri umani, androidi e libertà: la recensione di Detroit: Become Human
E allora il team di sviluppo si è dovuto sforzare nell'imbastire un'opera fitta, ricca, densa, imponente, perché da un certo retaggio non si può scappare, ma si può provare a far meglio nella storia, anzi nelle storie, nella presentazione, nel veicolare attraverso il medium videoludico più o meno gli stessi concetti e le stesse idee trasmesse da altri medium. Sfruttare insomma quanto solo il videogioco può fare, paradossalmente però in un una maniera che del videogioco classico ha poco, praticamente nulla, perché Detroit: Become Human non è distante, come magari qualcuno avrebbe sperato, dalle opere precedenti di Quantic Dream, conservandone la stessa impostazione, fortemente incentrata sulla narrazione, e lo stesso (non) gameplay, un costante utilizzo di quick time event, per operazioni banali così come nelle sequenze più concitate.
La storia è quella di un mondo nel quale gli umani utilizzano gli androidi in ogni campo, le storie sono quelle di tre di essi, Connor, un avanzatissimo prototipo di investigatore per la prima volta in dotazione alla polizia, Kara, una normalissima assistente domestica in una famiglia disagiata, e Markus, anche lui un badante, ma di un ricco artista, da lui rispettato, quasi amato. Il tutto mentre, fatto nuovo, i sintetici iniziano a mostrare segni di devianza, manifestando libero arbitrio e sentimenti, arrivando persino a disobbedire e usare violenza contro i loro padroni.
"Tre protagonisti che agiscono lontani tra loro, di vario ruolo e dal background profondamente diverso significa avere tante situazioni differenti"Il che non implica che Detroit: Become Human proceda sui binari della banalità. Tre protagonisti che agiscono lontani tra loro, di vario ruolo e dal background profondamente diverso significa avere tante situazioni differenti, ed è quanto il gioco in sostanza fa meglio, mettere il giocatore al centro di un'indagine o di un inseguimento e poi magari fargli riordinare una casa o esplorare un quartiere. Il primo e forse il più grande dei problemi della produzione di Quantic Dream è che, purtroppo, davvero pochi, pochissimi di tali momenti sono realmente impattanti dal punto di vista emotivo. Interi capitoli scorrono in una tranquilla fruizione, più che emozionante partecipazione, che si limita solo a brevi istanti in tutto l'arco del gioco. È difficile trovare un elemento al quale dare la colpa, non ai dialoghi, generalmente ben scritti, non alla sceneggiatura, che però in vari passi appare pretestuosa (generalmente tutta la storia di Markus appare innaturalmente veloce), forse alla regia, che effettivamente fa fatica a comporre scene che rimangano impresse; la sostanza è che comunque Detroit: Become Human arriva poco.
Forse la colpa è anche della complessa, in alcuni episodi sicuramente eccessiva, ramificazione degli eventi all'interno singoli capitoli. Piuttosto che sul costruire un'esperienza in grado di toccare il giocatore Quantic Dream sembra si sia concentrata sull'implementare quante più variabili possibili, che però raramente hanno un peso rilevante sull'evoluzione della storia. Sicuramente lo sforzo è apprezzabile, soprattutto in ottica rigiocabilità, ma forse concentrare le svolte nei momenti più importanti avrebbe prodotto un'esperienza più immersiva, non addirittura il caos di alcune (per fortuna poche) fasi, quasi da trial and error.
[caption id="attachment_185324" align="aligncenter" width="3840"] Markus è sempre stato trattato bene dal suo padrone, Carl, eppure...[/caption]
E poi c'è la scelta di continuare a insistere sui quick time event, con pressioni prolungate di un pulsante, o due, o tre, ripetute, prolungate, e magari accompagnate da movimenti con gli stick analogici, che se fossero limitati a pochi eventi sarebbero sostenibili, ma che sono praticamente ovunque, anche per la più banale delle azioni. Se persino God of War può permettersi di lasciarseli alle spalle, nello smembramento di mostri enormi, cosa può costare eliminarli per aprire una porta, o almeno usare un pulsante per le interazioni ambientali? Perché un gioco incentrato sulla narrazione deve costantemente dar fastidio a un giocatore che vorrebbe appassionarsi alla storia con superflue combinazioni? Non è creare immersività dover replicare con lo stick il roteare di una maniglia per aprire una porta, l'effetto è esattamente opposto. Ed è un problema che inficia anche la rigiocabilità, perché la voglia di vedere ogni snodo dalla trama è tanta, ma al prezzo di altre centinaia di inutili pressioni e movimenti?
C'è tanta qualità in Detroit: Become Human, nella caratterizzazione dei personaggi, nella costruzione di un mondo coerente e credibile, in tre storie che comunque appassionano il giocatore, sebbene più per la volontà di vedere come si concludono, piuttosto che nella loro evoluzione, in un impianto tecnico che sostiene ottimamente la produzione. Appassiona, intriga, tiene alto l'interesse e esibisce valori produttivi elevati e pazienza se l'abuso dei quick time event rompe il ritmo, incrina costantemente il legame che comunque si crea tra l'opera e il giocatore. Ma gli manca quel tocco vitale che sta nella capacità di toccare l'anima in alcuni momenti e nel dire qualcosa di nuovo riguardo temi sui quali sono stati già costruiti dei capolavori. E allora è solo un bel racconto.