Deserto Particular, la recensione

Spaccato in due fra denuncia sociale e utopia romantica, Deserto Particular affascina ma sembra indeciso su che strada prendere

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La recensione di Deserto Particular, il nuovo film diretto da Aly Muritiba, al cinema dall’11 gennaio.

Ci sono due film dentro Deserto Particular. Narrativamente, perchè la storia è divisa in modo quasi simmetrico fra due parti che raccontano le prospettive dei protagonisti. Tematicamente, perchè il loro incontro amoroso e politico si presta a due possibili letture, in parte antitetiche. C’è un’esplorazione critica e realistica dei modelli maschili retrogradi del Brasile bolsonarista. E c’è un percorso invece tutto interiore, di fuga dal consesso sociale verso una solitudine (il “deserto privato” del titolo) che consente di azzerare e ricominciare da capo la propria vita, perfino la propria identità. È il maggior motivo di interesse del film, oscillante stilisticamente fra cupo realismo sociale e squarci romantici. Ma ne è al contempo la grande debolezza, perchè le due anime stanno fra loro in un rapporto quasi parassitario: ognuna ha bisogno dell’altra per esistere e contemporaneamente la indebolisce. La denuncia si stempera nella ricomposizione idilliaca dei rapporti umani. La fede in una possibile rinascita è tarpata dalla consapevolezza di una realtà che rischia di bollarla come ingenuamente utopica o astratta.

Daniel (Antonio Saboia) viene sospeso dal corpo di polizia per un episodio di violenza nei confronti di una recluta. È in difficoltà economiche, deve badare al padre malato di Alzheimer, e non accetta la notizia del fidanzamento di sua sorella con una donna. Un giorno molla tutto e parte per Bahia, sperando di incontrare Sara (Pedro Fasanaro) con cui ha iniziato una relazione online. Ma la scoperta dell’identità queer della ragazza lo manda in ulteriore crisi.

Deserto Particular è al suo meglio nel racconto delle singolarità. La crisi mascolina di Daniel, nauseato dalla sua stessa violenza e circondato dalle vestigia di un modello machista ancora tragicamente attuale (il padre che lucida la pistola e indossa la sua vecchia uniforme); e la vita costantemente all’erta di Sara/Robson, donna trans o giovane crossdresser (non viene specificato) che cerca di conciliare la propria identità con la fede cristiana e l’atteggiamento discriminatorio della comunità.

È quasi un peccato che questi due spaccati umani debbano incontrarsi. Non perchè sia impossibile o sbagliato immaginare per loro una salvezza, ma perchè questo avviene in modo fin troppo edulcorato, fino a dare l’impressione di una fuga conciliatoria dalla realtà. Da una parte, come dice Giancarlo Zappoli su MyMovies, "non dev'essere stato facile realizzare questo film nel Brasile (...) del negazionista Bolsonaro". Dall’altra farlo con uno scenario da “migliore dei mondi possibili” rischia paradossalmente di ottenere l’effetto opposto; quello di dipingere una società rovesciata, dove i poliziotti violenti si redimono e si scoprono repressi, e le persone queer sfuggono facilmente all’intolleranza e alla violenza delle periferie rurali. Per quanta simpatia possa ispirare uno sguardo così utopico, evocare quei fantasmi per poi disfarsene tanto facilmente lascia con l’amaro in bocca.

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