Il derattizzatore, la recensione
Il terzo dei quattro corti di Wes Anderson tratti da Roald Dahl non è tanto sulla storia ma sul derattizzatore in sè e sul character design
La recensione di Il derattizzatore, il cortometraggio di Wes Anderson tratto da un racconto di Roald Dahl pubblicato su Netflix
Ralph Fiennes interpreta il derattizzatore e l’idea di fare di lui un uomo topo, unghie lunghe e arcigne, denti sporgenti, occhi completamente neri, innaturali e capelli grigi. È molto di più della descrizione che ne viene fatta nel racconto, è la parte in cui si inserisce Wes Anderson, che come già in Il cigno aggiunge del suo nella scenografie, negli ambienti e nelle caratterizzazioni di trucco e parrucco (che poi sono anche storicamente i suoi punti forti), ma sottrae alcuni elementi. Nel caso particolare alcuni oggetti che i personaggi tengono in mano. Non sarebbe indispensabile sottrarli, alcuni sono semplici come un barattolo di vetro. Ma non ci sono. I personaggi tengono in mano il niente come se avessero qualcosa.
Ma è chiaro, come detto all’inizio, che è questo personaggio del derattizzatore il punto del corto. Fiennes inventa una voce eccezionale che il doppiaggio italiano imita ma senza la medesima strana pastosità. Già nel racconto l’uomo è avvicinato all’animale, nella messa in scena c’è ad un certo punto un’identificazione totale tanto che per un attimo non Fiennes ma proprio un topo pronuncerà le battute del derattizzatore. L’equivalenza totale non solo tra uomo e animale, ma tra vittima e carnefice di una storia paradossale.
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