Departures - la recensione

Un giovane abbandona Tokyo e torna nel suo paese natale con la moglie. Finirà a occuparsi di funerali. Il film vincitore dell'Oscar è il classico prodotto che piace all'Academy: scontato e pseudopoetico...

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Recensione a cura di ColinMckenzie

TitoloDeparturesRegiaYojiro Takita
Cast
Masahiro Motoki, Tsutomu Yamazaki, Ryoko Hirosue, Kazuko Yoshiyuki, Kimiko Yo, Takashi SasanoUscita?

Un mese fa, la vittoria dell'Oscar per il miglior film straniero, che ha premiato Departures, pellicola giapponese di cui a stento la maggior parte di noi conosceva la trama, ha destato molta sensazione. Ma come, dopo aver scartato in fase eliminatoria un titolo come Gomorra, i membri dell'Academy (o meglio, solo una ristretta minoranza accreditata) hanno anche preferito questo titolo a prodotti acclamati come Valzer con Bashir, La classe e La banda Baader Meinhof? Eppure, la realtà è che l'Academy difficilmente sceglie i prodotti che sono stati amati di più in Europa e nel mondo dalla critica, a meno che non abbiano anche un grosso supporto distributivo (La vita è bella, per esempio).

Guardando Departures, non si fatica a capire perché questo film abbia vinto. E', in effetti, il classico prodotto che piace ai giurati. La struttura narrativa è assolutamente convenzionale (e francamente anche molto prevedibile), elemento fondamentale per prevalere (capito Folman e Cantet? La prossima volta fate un compitino copiato da centinaia di altri...). Va benissimo se i protagonisti sono un po' strani, l'importante è che alla fine tutto ritorni su dei binari corretti (anche se il percorso è stato poco tradizionale). Ma, soprattutto, un elemento non deve assolutamente mancare in questa ricetta, pena la mancata vittoria: la pseudopoesia. Qui, si rischia di fare overdose: salmoni che risalgono la corrente, voce off che riflette sull'esistenza, pietre che esprimono sentimenti, pesci vivi e morti nei momenti meno opportuni, pasti che rappresentano una metafora e soprattutto una scena imbarazzante in cui il violoncello viene suonato in mezzo alla campagna coi monti sullo sfondo (roba che anche un regista pubblicitario qualche problema se lo porrebbe).

Departures, in realtà, è un film assolutamente vedibile. Il problema non è infatti la pellicola in sé, ma il successo ottenuto, decisamente eccessivo, anche considerando che, per ambizioni e risultati, questo era probabilmente il film più debole della cinquina di candidati. Non è che manchino dei momenti interessanti in questo film. Penso all'inizio, con un rito molto bello e che sembra finire in maniera piuttosto rozza (ma poi si riprenderà). O al personaggio del maestro di orazioni funebri, che rappresenta bene lo spirito dell'opera.

Ma troppe cose, francamente, non convincono. Il protagonista si ritrova talvolta a fare facce eccessive, con un'idea dell'interpretazione che sfocia nella parodia. In effetti, almeno per buona parte del primo tempo, parodia è il termine che sembra descrivere meglio questo film. E' evidente che ci sia una volontà precisa di mostrare una differenza e una maturazione da un momento all'altro (il modo in cui scopriamo l'importanza che ha questo lavoro, giudicato da molti vergognoso), ma tutto sembra fin troppo calcolato e prevedibile per appassionare veramente. D'altronde, difficile capire certe scelte, come il tentativo del protagonista di nascondere alla moglie il proprio lavoro (in un piccolo paese??? Mah...). Non aiuta certo il lavoro di regia di Yojiro Takita, abbastanza piatto e banale, con poche idee valide (e i flashback quasi ricattatori non rientrano in questo elenco).

Alla fine, si ha l'impressione di aver visto uno spin off appena decente/mediocre di Six Feet Under. Di sicuro, come spesso avviene per l'Academy e i film stranieri (altro che la categoria principale!), difficile pensare che siano di fronte al più bel titolo dell'anno fuori dagli Stati Uniti...

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