Denti da squalo, la recensione

Tra gangster e coming of age Denti da squalo si muove in acque mai facili per il cinema italiano, trovando nei ragazzi la risposta

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione del film di Davide Gentile Denti da squalo, prodotto da Gabriele Mainetti in uscita in sala il 7 giugno

Da un’idea e un’immagine che non sarebbe stato strano trovare in Gomorra (il romanzo d’inchiesta), quella cioè di una villa di un boss del crimine con una piscina nella quale viene tenuto uno squalo, non esce il classico film italiano criminale ma un coming of age ambientato in quel mondo lì, quello delle gang di provincia a diversi gradi di età, potere e compromessi. La storia di Denti da squalo (prodotto dalla Goon Film di Gabriele Mainetti) è quella del coming of age di un predestinato, in teoria, un ragazzino figlio di un gangster morto (paradossalmente proprio quando si era redento e aveva intrapreso una professione legittima) che entra in contatto con lo squalo e nello stesso momento anche con il mondo del crimine dal basso, scoprendo di avere le doti che servono a fare strada.

Lo squalo è il simbolo di chi per andare avanti ha bisogno di fare paura; i denti da squalo sono quelli che vanno sviluppati per mordere e non essere morsi, secondo la filosofia della sopravvivenza del più forte del mondo criminale che tutti intorno al ragazzo protagonista professano e di cui lui è imbevuto. Il parallelo è molto diretto e mai nascosto, come anche la parabola del protagonista, stretto tra un polo criminale con un amico poco più grande di lui (ma che come capita a quell’età fisicamente sembra molto più adulto) che dovrebbe iniziarlo al crimine ma non è poi così portato, e l’altro casalingo con una madre onesta che lo aspetta a casa, fa domande, si preoccupa e cucina lasagne e torte di ricotta. L’armamentario oscilla, quindi, tra il tradizionale e il moderno, ma Denti da squalo il suo meglio lo dà quando rinuncia al genere e si concentra sui personaggi.

Carlo e Walter, i due amici, sono una coppia molto diversa da quelle che solitamente raccontano i film e che proprio per questo è un piacere scoprire lungo la storia. Le loro interazioni e le dinamiche che instaurano danno soprattutto a Carlo (il più grande) una profondità tra il tradizionale e il tenero che vince la partita. Walter (Tiziano Menichelli) ha l’arco narrativo su cui si concentra il film ma Carlo (Stefano Rosci) è quello più convincente. Non è il loro rapporto però il cuore del film, che tiene di più alla storia personale del suo protagonista, al rapporto con il padre morto (con il quale dialoga) e al suo conflitto tra quello che pensa possa essere meglio per sé e il mondo più rassicurante della madre. Ed è un peccato.

Nelle parti più criminali infatti il film arranca maggiormente, non solo fatica a far recitare bene i due attori ma sembra non avere le parole giuste da mettergli in bocca. Parlano la lingua dei film e non quella del mondo reale, e non sapendola recitare suonano artificiosi. Tutto il contrario di quando invece portano avanti il loro rapporto: in quei momenti le interazioni, le espressioni, il linguaggio del corpo e la lingua che parlano hanno il tono naturale del cinema italiano migliore. E se il genere criminale è uno dei più percorsi in questi anni, il coming of age (ma più in generale i film in cui dei minorenni sono protagonisti) è invece quello in cui il cinema italiano fatica maggiormente e in cui ci sarebbe più bisogno di modelli positivi. Denti da squalo sembra trovare la chiave giusta per affrontarlo.

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