[Biografilm 2016] Demolition, la recensione

Di pezzo in pezzo Demolition vuole distruggere e ricostruire il suo protagonista ma riesce solo a banalizzare il dolore

Critico e giornalista cinematografico


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Fottiti è una grande parola ma tu la usi troppo, così perde di valore e ti fa sembrare scemo” - “Vai a farti fottere!” - “Ecco vedi: io non mi sento toccato, tu hai fatto la figura dell’idiota”. Con questo scambio Davis spiega al figlio della donna che ha cominciato a frequentare che non vale la pena di abusare troppo di certi espedienti, altrimenti gli si leva valore. È incredibile quindi che sia esattamente questo il problema di Demolition: a furia di ripetere e ribadire di continuo quanto stia soffrendo sommessamente il proprio protagonista la cosa perde di valore. Io non mi sento toccato e il film fa la figura dello scemo.

A Davis è morta la moglie all’inizio del film, così si trova solo in una vita che capisce in fondo non essere davvero sua. Non riesce ad elaborare il lutto, vorrebbe ricominciare ma non sa come. Comincia così a smontare tutto, perché vuole “andare a fondo e capire le cose”, smonta le porte, i frigoriferi, i macchinari fino a distruggere tutta la casa. “Distruggere ordinatamente o meno per scarnificare il dolore”, lo si potrebbe scrivere se solo valesse la pena usare una simile espressione, ma non è così. Demolition vorrebbe creare un’equivalenza tra oggetti smontati e dolore interiore, non diversamente da come nei suoi film migliori Wong Kar-Wai attribuisce agli oggetti le sensazioni che i protagonisti non vogliono ammettere, come se questi soffrissero per loro, ma a furia di ribadire la propria metafora non fa che levargli senso.

Il punto è che Jean-Marc Vallée i suoi protagonisti li mette sempre alla prova, li fa passare attraverso esperienze lunghe e faticose che ne minano la salute fisica e mentale per vedere cosa rimane di loro alla fine, per vedere se dopo la demolizione c’è una rinascita. L’idea in sè è fantastica, far coincidere il crollo personale e interiore con quello fisico e carnale, eppure nei suoi film l’impressione è sempre che la voglia di rendere teneri, originali e fuori dai canoni i protagonisti abbia la meglio, che il fattore “simpatia” debba trionfare a tutti i costi, affogando tutto il resto in un mare di melassa melensa.

Così Demolition, dopo Dallas Buyers Club e Wild, fa del suo protagonista un eroe, anche se non lo sarebbe. Jake Gyllenhaal è un eroe perché il film gli contrappone un mondo cattivo di una cattiveria da operetta, esagerata e manichea, una che lui subisce angelicamente. È un eroe perché segue la filosofia del dolore di Hurt di Trent Reznor, farsi male, fisicamente (si fa sparare addosso con un giubbotto antiproiettile) per vedere se è ancora in grado di provare qualcosa. È un eroe perché addirittura come reazione alla morte della moglie, in un impeto di ruffianeria da braccia strappate al Sundance Festival, scrive lettere di protesta alla società che gestisce i distributori automatici di snack dell’ospedale, poiché una delle loro macchine gli ha preso i soldi, e in quelle lettere si sfoga, trovando il meno consueto dei rapporti umani. Ma anche il meno credibile.

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