Delta, la recensione
Nel delta del Po scoppia una guerra tra poveri che contrappone immigrati e pescatori ma il cui vero nemico è interno
La recensione di Delta, il secondo film di Michele Vannucci in uscita al cinema il 23 marzo
Ad essere raccontato è lo scontro tra interventisti e attendisti nel delta del Po. C’è una comunità rumena che sta pescando di frodo, con metodi non consentiti, rovinando il lavoro dei pescatori locali e l’ambiente. Alcuni attivisti e rappresentanti dei pescatori non concordano con l’approccio per combatterli, i primi vogliono la via politica, i secondi le legnate. Si scoprirà che proprio un membro della comunità locale finanzia i rumeni e scoppierà un conflitto anche sentimentale (che peccato che il film si interessi così poco al personaggio di Emilia Scarpati, l’unico di cui vorresti sapere davvero tutto). C’è quindi il classico contrasto tra la tradizione di chi ha fiducia nelle istituzioni e crede nelle regole e chi desidera la giustizia sommaria e subito. Una guerra tra poveri (e tra uomini, in cui le donne vengono stritolate) in un luogo in cui manca l’autorità.
E lì, in quel delta del Po ritratto da Delta, non c’è possibile idea di felicità. Lo dice la luce grama, l’umido insopportabile, il fango ovunque e lo dicono le sterpaglie al posto della natura. È un posto infame in cui si vive in modi infami, dentro baracche, pescando pesci che non sono per niente invitanti (alle volte veri e propri mostri marini) e costantemente sventrati dall’alcol consumato senza criterio. Vannucci lavora molto bene di look & feel per dare una visione chiara, la parte visiva è impostata molto bene, eppure a sorprendere effettivamente è la parte terminale della storia. È paradossalmente la meno risolta, quella un po’ più sbrigativa e meno curata. Tuttavia avviene qualcosa che denuncia un cambiamento antropologico del cinema italiano.