Delete History, la recensione | Berlinale 2020

Dopo qualche film meno in forma il duo di Louise Michel torna con Delete History attingendo ad un pozzo cui nessuno attinge per un film perfetto

Critico e giornalista cinematografico


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DELETE HISTORY, LA RECENSIONE

Ci sono tantissime situazioni e idiosincrasie contemporanee di cui il cinema non si occupa, una valanga di piccole storture del mondo moderno o di ridicole paranoie indotte dal marketing che accomunano tutto il mondo occidentale e che non sono mai rappresentate come parte della vita di personaggi o parte di storie. Tantomeno prese in giro.

Questo diventa evidente quando arriva un film come Delete History. Benoit Delépine e Gustave Kervern sono due tra gli autori di commedia migliori in assoluto, sono dei maestri di scrittura e umorismo con una visione politica radicale che estendono ovunque e un amore per gli ultimi e i derelitti che a tratti ricorda i coniugi Jared e Jerusha Hess. Nel momento in cui prendono di mira l’ossessiva presenza tecnologica nella nostra vita diventano devastanti.

Hanno a disposizione una prateria di gag e situazioni che il cinema non racconta, dalle più semplici (il CAPTCHA con i semafori) alle più succose (le telefonate delle compagnie telefoniche che offrono tariffe più convenienti) fino alle meno prevedibili (la consegna a domicilio) non disdegnando nemmeno le più abusate (le sex tape), e le usano tutte insieme per creare un mondo ossessionato dal tormento al consumatore, in cui i consumatori stessi sono diventati ossessionati da quei prodotti. In un cammeo epico c'è anche il grandissimo Benoît Poelvoorde che aggiunge un tassello sui rider.

Nello specifico ci sono tre amici che sono anche tre derelitti, tre rottami della società che poi scopriremo essersi conosciuti durante una manifestazione dei gilet gialli (tratto che li connota ancora più come apolitici aggregati da interessi particolari), ognuno con problemi tecnologici. Una è una madre divorziata senza affido del figlio con problemi d’alcol e l’ossessione della tariffa migliore, un’altra è un’autista di un servizio simile a Uber che non riesce ad avere recensioni con un più di una stella e l’ultimo è un uomo che cerca di rimorchiare le telefoniste dei call center promettendo loro fughe d’amore e un domani migliore.

Tutte vite in cui la tecnologia è onnipresente ma è solo una continua perdita di tempo. Servizi, telefonate, abbonamenti ecc. ecc. sono una deviazione continua, un detour cui la società obbliga le persone e da cui i personaggi sembrano dipendere come da una droga che implica più lavoro, più cose da fare futilissime per arrivare a obiettivi che invece sono sempre più lontani. È un incubo kafkiano in cui l’agevolatore (la tecnologia) in realtà rimanda il risultato e aliena le persone.

Come è ovvio il film cede un po’ alla stupideria luddista ma di contro l’ironia che mette sul piatto è così centrata e così densa di conoscenza di ciò che parla e così in armonia con una trama potente fino alla fine, che davvero glielo si perdona volentieri. Se c’è uno sguardo critico competente, divertente e capace di dire qualcosa sulla maniera in cui la tecnologia entra nella nostra vita sovvertendo tutto ed esagerando con l’umorismo demenziale, è questo.

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