Tromperie - Inganno, la recensione | Cannes 74
Un intero film di dialoghi a due non riesce mai a fare un vero lavoro sulle immagini e così, a parte un gran finale, Deception rimane in superficie
Come si può non essere appassionati dei finali dei film di Arnaud Desplechin? Della sua capacità di prendere tutto quello che è stato seminato e concentrarlo in un momento carico di senso e capace di portare tutto il pubblico, tutto insieme, nella direzione che conta. Non ha bisogno di scene madri, non ha bisogno di enfasi, ma riesce a creare un momento che faccia da collettore di tutto quello che è stato provato e gli dia un nome, una qualità specifica, facendo emergere un mosaico complicato di sentimenti ed emozioni che ha necessitato di un film intero per essere creato.
A differenza di Steve Jobs (di Danny Boyle e Aaron Sorkin), Deception nonostante una messa in scena curatissima e di gran lustro, non riesce a fare con la lingua delle immagini la stessa fatica che fa quella delle parole.
Così la lunga serie di interazioni dà forma a personaggi, racconta quel che le persone dicono ma non va mai oltre a quello. Filmare l’infilmabile Roth si conferma una maledizione, perché Deception si limita ad una lettura molto ben recitata, ma non ne fa davvero un film. Almeno fino alla fine, quando Lea Seydoux e Denis Podalydès si incontrano per l’ultima volta e si respira una eccezionale aria da fine di tutto, l’aria dei ricordi e dell’affetto che è stato e non potrà più essere. In quel momento c’è l’impressione di aver capito cosa dovesse essere Tromperie - Inganno nella testa di Desplechin e invece riesce ad essere solo per un ultimo fugace momento alla fine.