Dead Pigs, la recensione
Diverse storie intrecciate e non con un unico fine: raccontare le macerie umane che rimangono dopo la mareggiata del cambiamento e della modernità
Dead Pigs, a due anni dalla presentazione al Sundance (e a uno dal film successivo di Cathy Yan), arriva finalmente a tutti o quasi grazie a MUBI.
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Come ogni paese in rapido mutamento la Cina è la nazione dove è più facile veder emergere le contraddizioni umane. È il bacino di storie più accattivante, ma soprattutto credibile. Lì ogni storia ha una plausibilità che altrove, in un altro tempo, non avrebbe. Le sue dimensioni e il successo che ha lì il cinema gli consentono anche di avere una classe di registi dal ricambio forsennato e sempre di livello.
Del resto ogni storia e ogni film cinese che mettono in scena il mutamento del paese ci appaiono come un racconto dell’Italia degli anni ‘60 o dell’Inghilterra vittoriana o del Giappone dopo la seconda guerra mondiale: la descrizione dei relitti umani lasciati dall’ondata devastante della modernità improvvisa. Solo con una capacità di riconoscere il ridicolo e abbracciarlo nella tenerezza della sua capacità umoristica che in Italia suonano più familiari che altrove.
Non tutto è propriamente a fuoco e obiettivamente le opposizioni logiche su cui lavora Cathy Yan sono davvero elementari, come la sua retorica sulla modernità che uccide (l’allevatore di maiali che raccoglie cadaveri con freddezza ma poi perde la testa per la VR). Tuttavia la plausibilità e la concretezza con la quale viene dipinta una società sempre in corsa, determinata a urlare l’unicità degli individui mentre afferma la forza della collettività e il cui potere si fonda sulla quantità e i numeri (lo sviluppo di città o intere porzioni di città portato avanti come fosse lo sviluppo di un condominio), rimane impressionante.