Dead Pigs, la recensione

Diverse storie intrecciate e non con un unico fine: raccontare le macerie umane che rimangono dopo la mareggiata del cambiamento e della modernità

Critico e giornalista cinematografico


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Migliaia di maiali morti in campagna (storia vera). Una speculazione edilizia spietata con radici ed estetica europea. Un padre rovinato e appassionato dalla VR. Un ragazzo sensibile innamorato di una ragazza di malaffare. Sono questo tipo di contraddizioni quelle che animano il racconto corale per episodi separati (ma intrecciati dal montaggio e ad un certo punto collegati da dettagli della trama) con cui Dead Pigs parla del mutamento del suo paese. Dietro c’è Jia Zhangke a produrre (c’era da sospettarlo prima ancora di leggerlo, vista la trama) ma anche uno sguardo particolarissimo contemporaneamente interno ed esterno.

Dead Pigs, a due anni dalla presentazione al Sundance (e a uno dal film successivo di Cathy Yan), arriva finalmente a tutti o quasi grazie a MUBI.

È lo sguardo di Cathy Yan che prima di dirigere Margot Robbie in Birds Of Prey scriveva e dirigeva questo film cinese in Cina, con idee da occidente e una strana fusione di temi riguardo la società in maggior movimento dei nostri anni.

Come ogni paese in rapido mutamento la Cina è la nazione dove è più facile veder emergere le contraddizioni umane. È il bacino di storie più accattivante, ma soprattutto credibile. Lì ogni storia ha una plausibilità che altrove, in un altro tempo, non avrebbe. Le sue dimensioni e il successo che ha lì il cinema gli consentono anche di avere una classe di registi dal ricambio forsennato e sempre di livello.

Tutto questo crea scene eccezionali come il balletto motivazionale che apre il film o la tensione verso il successo che si respira nel segmento edilizio, o ancora lo squallore da show business di quartiere della parabola europea. Ci sono momenti che alternano il vero e il falso, l’artefatto e la cronaca per raccontare la distruzione umana che si accompagna al cambiamento sociale. E tutto con un appropriato senso dell'ironia, con la voglia di ridere e deridere i propri personaggi mentre si prova tenerezza.

Del resto ogni storia e ogni film cinese che mettono in scena il mutamento del paese ci appaiono come un racconto dell’Italia degli anni ‘60 o dell’Inghilterra vittoriana o del Giappone dopo la seconda guerra mondiale: la descrizione dei relitti umani lasciati dall’ondata devastante della modernità improvvisa. Solo con una capacità di riconoscere il ridicolo e abbracciarlo nella tenerezza della sua capacità umoristica che in Italia suonano più familiari che altrove.

Non tutto è propriamente a fuoco e obiettivamente le opposizioni logiche su cui lavora Cathy Yan sono davvero elementari, come la sua retorica sulla modernità che uccide (l’allevatore di maiali che raccoglie cadaveri con freddezza ma poi perde la testa per la VR). Tuttavia la plausibilità e la concretezza con la quale viene dipinta una società sempre in corsa, determinata a urlare l’unicità degli individui mentre afferma la forza della collettività e il cui potere si fonda sulla quantità e i numeri (lo sviluppo di città o intere porzioni di città portato avanti come fosse lo sviluppo di un condominio), rimane impressionante.

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