Dead Man Down: il sapore della vendetta, la recensione
Del film urbano, notturno, orchestrato tra gangster e povere anime c'è solo la patina, l'idea stereotipica priva dello spirito che muove anche il peggiore tra gli exploit sinceri di Hollywood...
Sembra che Niels Arden Oplev, arrivato in America sulle ali della trilogia originale di Millenium (quella di Uomini che odiano le donne), non vedesse l'ora di comportarsi assecondando i principali tratti che dall'Europa attribuiamo al cinema statunitense più commerciale. Il suo Dead Man Down è la celebrazione dell'action hero dal cuore devoto alla famiglia, inserito in un clima da gangster cittadino e infine colorato di individualismo, eroismo e un'improbabile superomismo. Insomma il grado più superficiale e pigro di Hollywood.
Dunque al primo film in terra americana Oplev si mostra subito moralmente ambiguo (in un genere, il "più o meno noir" cittadino, che invece fa della morale il suo punto di forza) se non proprio ignavio, incapace di pretendere posizione, conscio che si tratta di materia non importante.
Della storia di un uomo che ha la vendetta nel cuore e di due anime ferite che forse insieme possono trovare pace, Dead man down sembra quindi interessarsi solo all'intreccio e mai al senso ultimo. Oplev gode nel generare piccoli quadretti, momenti di tenerezza, di paura, di tensione, di azione o anche di comicità (con l'imprevedibile sordità di Isabelle Huppert) ma mai nell'immaginare un grande racconto coerente, un affresco che anche visto da lontano abbia molto senso.
Incapace di raccontare un mondo davvero disperato, incapace di dire qualcosa sul vivere urbano, indifferente all'uso della violenza che fa, non curante delle carte che mette sul tavolo (quanti spunti delle interazioni tra i due protagonisti non vengono colti?) e infine totalmente impotente di fronte all'esigenza di raccontare due esseri umani Dead man down è solo una buona raccolta di immagini per trailer.