Into Darkness - Star Trek, la recensione [2]

In uscita nelle sale italiane il 12 di giugno, il sequel del celebrato reboot di J.J. Abrams diverte ma dimentica qualche lezione importante...

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Per parlare oggettivamente di Into Darkness: Star Trek bisognerebbe essere un robot. Anzi no, un vulcaniano. Come il Signor Spock. No, non il Signor Spock di Into Darkness: Star Trek, che ha una vocazione vulcaniana paragonabile a quella di Stephen Hawking come ballerino di salsa. Il Signor Spock della serie tv originaria, trasmessa tra il 1966 ed il 1969, di cui Star Trek (2009) e l’attuale sequel costituiscono l’acclamato reboot.

Per giudicare correttamente questo film, diretto dallo scaltro J.J. Abrams (già tessitore di destini naufragati in Lost e attuale detentore delle sorti dei futuri Star Wars), occorrerebbe conoscere bene la saga di origine, e possedere al contempo una sorta di atarassica capacità di archiviare la nostalgia legata ad essa, per ridurre il tutto a un mero accumulo di nozioni utili alla comprensione della trama. In breve: conoscere il passato e distaccarsene con calma olimpica e cuore serenamente rivolto al futuro. Chi scrive, purtroppo, questa calma confessa candidamente di non possederla. Si impegna, però, a sforzarsi nel limitare i danni del suo fervente campanilismo trekkiano e della sua insana passione per personaggi che, sebbene ormai coperti da una patina talvolta risibile dovuta ai quarantasette anni trascorsi dalla prima messa in onda, hanno comunque segnato la storia televisiva mondiale.

Partiamo dal protagonista, destinatario di un’inaspettata lode; Chris Pine, nel ruolo del Capitano James T. Kirk, riesce infatti a non far rimpiangere la simpatia dell’originale William Shatner e dimostra accresciute capacità attoriali rispetto al primo capitolo. Interessante la sua parabola umana, che lo libera dalla cappa di imbecillità appioppatagli nel precedente film e lo fa assurgere finalmente al ruolo di leader non per etichetta mutuata dalla serie ma per raggiunta maturità e spirito di sacrificio.

In un cast decisamente azzeccato, mutuato in toto dalla pellicola del 2009, i difetti riscontrabili nel precedente episodio vengono in parte annullati – laddove la sceneggiatura si concentra su Chekov, Sulu e Scott – e in parte tristemente acutizzati – nelle scene dedicate a Spock. Non che ci si debba attaccare a quel concentrato di calma riflessiva e self control incarnato magistralmente dal primo Spock, alias Leonard Nimoy. Bisogna avere la lucidità di guardare avanti e capire che un franchising, per essere rimodernato, ha bisogno di qualche rinuncia in nome del miglioramento. Peccato che no, nello Spock di Into Darkness questo miglioramento non ci sia. La colpa non va al comunque ottimo Zachary Quinto, che gestisce con sapienza misurata il gravoso lascito dell’icona Nimoy, ma piuttosto a un gusto ammiccante e ruffiano che è alla base dell’intera operazione di rilancio della saga. Gusto che, sul guardiamarina Chekov o sul capo ingegnere Scott, ha avuto effetti benefici, ma su un personaggio di per sé perfetto com’era in origine Spock ha procurato un becero appiattimento che l’ha snaturato e privato di tutte le sue caratteristiche migliori: eccoci assistere dunque a scene di pianto, attacchi d’ira e improbabili effusioni, il tutto volto a banalizzare inspiegabilmente un comprimario che, per una volta, non necessitava di miglioria alcuna. Laddove il vulcaniano, personaggio emblematico della saga originaria, era stato concepito come naturale contraltare alla passionalità irruenta dell’eroe romantico Jim Kirk, in entrambi gli Star Trek targati Abrams questa  dicotomia si riduce a un battibeccare da sitcom (subito smentito dalle azioni) piuttosto che a uno scontro tra psicologie complementari. A ben guardare, il climax di emozioni vissute dal vulcaniano all’interno di Into Darkness avrebbe potuto destare interesse, se solo non fosse stato già ampiamente raccontato nel precedente capitolo, annullando del tutto l’eccezionalità dello Spock emotivo e sensibile. Come diceva Goethe, un arcobaleno che dura un quarto d’ora non lo si guarda più.

Buon lavoro di caratterizzazione, invece, per il resto dell’equipaggio: in particolare il Montgomery “Scotty” Scott di Simon Pegg, nel primo film poco più che una spalla comica, è qui più sfaccettato e caratterizzato, grazie a un upgrade coadiuvato dall’eccellente prova dell’attore inglese. Raccomandabile, per godersi appieno il suo impagabile accento scozzese (così come il baritonale vocione del cattivo Cumberbatch), la visione del film in lingua originale, anche a scapito di un 3D davvero immersivo e spettacolare, inficiato qua e là da discutibili effetti metacinematografici (in una delle sequenze iniziali, gli schizzi d’acqua aggiunti in postproduzione sullo pseudo-schermo della telecamera sono una trovata a dir poco raccapricciante). Occasione mancata per il Dottor Leonard “Bones” McCoy, efficacemente interpretato da Karl Urban, che in questo secondo capitolo è però particolarmente penalizzato dalla predominanza di Spock e si riduce, dunque, a parte più in ombra del triangolo inossidabile che, col vulcaniano ed il Capitano Kirk, costituiva l’ossatura della saga originale.

Il villain di Benedict Cumberbatch segue la linea già vista e rivista del cattivo-che-ha-i-suoi-buoni-motivi-per-essere-cattivo, e i presunti colpi di scena legati al suo personaggio funzionano fino a un certo punto. Tuttavia, qualunque pecca di script viene colmata dal suo camaleontico talento che, d’altronde, non aspettava certo Into Darkness per trovare effettiva dimostrazione. In un ruolo concepito inizialmente per Benicio Del Toro, Cumberbatch è talmente bravo e credibile da risultare quasi stonato. In ogni fotogramma, forte di una presenza scenica impressionante e di una fisionomia rettile che buca lo schermo più di qualunque phaser, l’attore britannico conferisce al suo personaggio un fascino ed una drammaticità risolte, in sceneggiatura, da un pugno di battute facilmente dimenticabili. Se il suo John Harrison è memorabile, è quasi solo grazie a lui. Basterebbe la sua scena di pianto a giustificare il costo del biglietto: una performance da brividi. Si può parlare di overacting? No, a meno che non sia sinonimo di stato di grazia.

In conclusione, rinnovare una saga è un compito oneroso. Il pregevole, godibilissimo risultato dello Star Trek del 2009 e di questo sequel merita ammirazione a prescindere dalla serie tv originaria. Dimenticando completamente i precedenti, il plauso che il mondo riserva ad Abrams appare dunque giusto e doveroso. Rinnovare una saga, però, vuol dire innanzitutto rispettarla, ed è questo il punto che sembra essere sfuggito a J.J. e compagnia bella. Da Into Darkness, certo, emergono tutti i richiami più elementari per il pubblico di fan, attraverso citazioni tratte dalla serie classica e snocciolate manco fossero un’Ave Maria.

Ma non è questa la sostanza profonda e autentica della saga creata da Gene Roddenberry negli anni ‘60. Non basta mettere le parole “logico” e “illogico” in bocca a Spock, se poi lo si fa piangere come una mammola o prendere a cazzotti il primo bullo che gli si para dinnanzi. Into Darkness mette in luce, più che i propri (rari) difetti intrinsechi, le debolezze dell’intera operazione di reboot. Manca quella travolgente carica innovativa che consentì a Star Trek di rivoluzionare il modo di fare televisione, manca quello spirito intrepido esplicato nella frase iniziale di ogni episodio (“fino ad arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima”). Alla fine degli anni ’60, una serie tv low budget ebbe il coraggio di piazzare tra gli alti ufficiali una donna di colore, un giovane russo, un giapponese e persino un alieno; il coraggio di mostrare, per la prima volta nella storia della televisione, un bacio multietnico. A terzo millennio già iniziato da un po’, Into Darkness deve ancora attaccarsi al bikini totalmente gratuito di un personaggio secondario per far strizzare gli occhi agli spettatori più malandrini.

Nessuno discute la regia scattante di Abrams e la sua capacità di orchestrare sinfonicamente le sequenze d’azione, per la gioia e il godimento di tutto il pubblico, e forse è ancora presto per definire con certezza la direzione poetica di questa (probabile) trilogia; possiamo però sbilanciarci a dire che per il momento, malgrado l’altissimo livello qualitativo dell’intrattenimento offerto, siamo ben lontani dall’arrivare là dove nessun uomo è mai giunto prima.

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