Dark (seconda stagione): la recensione
Tutto ciò che si può chiedere a Dark è di meritarsi lo sforzo necessario a vederlo: e anche stavolta la risposta è positiva
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La storia di Dark non si emancipa nemmeno per un istante dall'espediente del viaggio nel tempo. In altre opere questo è il motore che permette di creare una situazione da cui poi ci si può staccare per raccontare altro. Qui invece il viaggio nel tempo è l'origine di tutto e l'obiettivo finale, lo strumento e l'arma, la speranza e la maledizione. Soprattutto quest'ultima. Jonas, Ulrich, Helge, Mikkel sono tutti vittime della loro esperienza di viaggiatori nel tempo. Qui la premessa fantascientifica non è un mezzo per vivere avventure dalle quali magari apprendere una lezione, è solo un marchio e una prigione dai quali è impossibile liberarsi.
Tutto questo ha delle conseguenze sulla caratterizzazione dei personaggi, che valgono poco di per sé e quindi sono ancora meno riconoscibili e memorabili. Tutto questo accade proprio perché, ancora una volta, tutti loro sono definiti in base al modo in cui i viaggi nel tempo li condizionano, direttamente o no. Sono vittime sperdute in un flusso che si muove in entrambe le direzioni, e la storia non concede mai loro sufficiente respiro per essere altro, anche nelle storyline che vorrebbero essere più romantiche.
Ma, anche così, Dark ha un suo senso. Anzi, forse ce l'ha proprio in virtù della propria rigidità e mancanza di compromessi. C'è una sincera dedizione dietro questo progetto, che cela più di quanto svela con la propria mitologia sussurrata e l'intreccio sotterraneo. E che soprattutto riesce a elaborare con una grande personalità il fascino dell'ignoto e la manipolazione del destino, tra ironia crudele e annientamento dell'individuo. Se fosse un film, sarebbe Predestination.