Dark Horse - la recensione

[Venezia 68] Confinato nell'esistenza e nei piccoli problemi del suo protagonista, Solondz trova la solidità e la chiarezza d'intenti che non ha mai raggiunto...

Critico e giornalista cinematografico


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Dark Horse di Todd Solondz è un'opera piccola piccola, che racconta di un uomo e su di lui si ferma, senza mai ampliare lo spettro delle proprie considerazioni. Tutti coloro i quali ruotano intorno a lui sembrano esistere solo in funzione del racconto che il regista vuole fare di quest'uomo e dei suoi sentimenti.

Il Dark Horse è il cavallo scommettendo sul quale si fanno i soldi, quello che sembra non poter vincere ma al quale lo scommettitore vero affida la sua sorte perchè pensa di sapere qualcosa che gli altri non sanno.

Come volesse cavalcare una moda, il protagonista è un nerd cresciuto, un bambinone ben oltre i 30 anni che vive con i genitori e lavora svogliatamente nella ditta del padre. Ha i soldi ma non ne guadagna davvero, guida un hummer giallo, è inadatto alle relazioni sociali e colleziona action figure. Insomma è uno stereotipo. Ma l'incredibile viaggio che il regista fa compiere allo spettatore lo restituirà alla giusta complessità.

Mescolando sogni, aspirazioni e realtà, in maniera alle volte indistinguibile, e condendo tutto il consueto humour di situazione, privo di battute quindi, con Dark Horse Todd Solondz riesce nell'impresa di raccontare la delusione di un uomo per se stesso e un certo male di vivere che va a braccetto con il benessere assieme alla presa di coscienza e l'immensa tristezza che si celano dietro un atteggiamento difensivo. Senza nessuna paura di dare torti e ragioni, utilizzando solo musica diegetica e una valanga di silenzi, poi parteggiando senza se e senza ma con il suo protagonista, Dark Horse si pone il più alto degli obiettivi e lo raggiunge. Da inchino e bacio dell'anello.

 

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