Dante, la recensione

Un viaggio di Boccaccio per restituire dei soldi alla figlia di Dante diventa una scusa per conoscere meglio il grande poeta

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Dante, l'ultimo film di Pupi Avati con Sergio Castellitto

C’è un momento in cui Dante è un film di grande chiarezza e fulgore. Un momento di stranissima perfezione che pare uscito dai momenti migliori del cinema dei Taviani, arriva alla fine, quando il viaggio di Castellitto (che interpreta Boccaccio) finisce. Lui è partito ad inizio film con dei soldi da consegnare alla figlia di Dante, il poeta è morto da tempo e Firenze ha deciso per questo risarcimento postumo per l’esilio. Boccaccio è uno dei più grandi ammiratori di Dante (che non ha mai conosciuto) e gli viene dato questo compito che affronta come un detective, volendo ricostruire la vita in esilio di Dante lungo il viaggio. Quando arriva al termine c’è un attimo sospeso e questo incontro molto caricato lungo tutto lo svolgimento trova un acme sulla faccia di Castellitto (bravissimo) in una notte con delle lucciole e un albero che è ad un passo ma non si vede, immerso nel buio.

È la seconda volta in poco tempo che un film di Pupi Avati contiene un momento di cinema altissimo, realmente memorabile. Era già capitato con Lei mi parla ancora l’anno scorso. Purtroppo come in quel caso anche qui la scena è isolata, sola in un film di due ore che è un’altra cosa e funziona proprio secondo altri criteri. Criteri didattici e di correttezza, cioè il desiderio di aderire moltissimo alla vera storia e al vero contesto (sbandando poi totalmente con un doppiaggio che dà voci impostate a tutti) e di esaltare l’intelletto e la grazia di figure storiche di acclarato valore. Un film supino sui suoi personaggi e i loro nomi intoccabili che non ce li restituisce come uomini (anche se vorrebbe) ma come icone ancora più intoccabili di quando abbiamo iniziato.

Ad un certo punto Castellitto/Boccaccio dirà: “Io Dante non so perché quando lo immagino lo immagino giovane” che è una verità (l’iconografia tradizionale lo ritrae sempre nel mezzo del cammino della sua vita) ma incredibilmente Dante perde l’occasione di fare una rappresentazione diversa a sua volta, e di nuovo raddoppia con dei flashback sulla vita e (indovinate) l’amore distante per Beatrice da giovane, tutto sguardi ammirati sorrisi ampi e furore politico. Sembra proprio che Pupi Avati non sia stato in grado di immaginare un suo Dante ma abbia ritratto il solito Dante, quello dei libri di testo. E più in generale tutto il film è un disastro pesantissimo che non solo non riesce a fare un ritratto personale e unico di Dante ma non ci prova nemmeno (semmai ci prova con Boccaccio ma non essendo il cuore del racconto non gli interessa davvero approfondirlo), limitandosi ad essere corretto. La cosa farà contento qualsiasi docente di liceo, meno uno spettatore assetato di cinema.

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