Dancing with Maria, la recensione
Il soggetto di Dancing with Maria è clamoroso e porta con sè un immaginario visivo formidabile, peccato che il documentario non stia sempre al passo
Ballerina argentina di buona notorietà, ad un certo punto della sua carriera ha deciso di cominciare ad insegnare danza come forma di terapia. Terapia per chi ritiene di averne bisogno ma anche terapia per invalidi o terapia per affetti da sindrome di down, non ci sono categorie che Maria (ormai anziana ma comunque vitale e capace di impressionare muovendo anche solo una mano) non possa far ballare. Il suo metodo e la sua scuola hanno diverse succursali in diverse città del mondo ma lei continua a vivere nella sede centrale, casa e bottega.
C'è qualcosa di fortissimo in queste immagini, a prescindere dallo stile con il quale Ivan Gergolet le riprende: quella che per alcune persone è una gabbia che costringe, limita e fiacca (il corpo, specie se contaminato da handicap), possa diventare lo stesso, in maniere paradossali, un'opportunità di comunicazione.
Gergolet documenta anche la lotta di Maria Fux contro il suo corpo che decade ma in questo caso, cioè nel dramma, non trova la forza visiva che invece è presente nelle prime immagini dell'estasi da danza dei corpi inusuali dei suoi studenti portatori di handicap. E così lentamente il film muore.