Damsel, la recensione

La nuova collaborazione fra Netflix e Millie Bobby Brown è un fantasy stanco e svogliato, che promette sovversione dei clichè ma gira a vuoto.

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La recensione di Damsel, il nuovo film diretto da Juan Carlos Fresnadillo, in streaming su Netflix dall'8 marzo.

All’inizio di Damsel la voce fuori campo della protagonista Millie Bobby Brown avvisa il pubblico su quello che il film non sarà: la classica storia della damigella in pericolo (“damsel in distress”) salvata dal cavaliere sul bianco destriero. Arrivati alla fine ci si chiede ancora cosa il film sarà, o avrebbe dovuto essere. L’idea di fondo – sovvertire il clichè maschilista e raccontare la donna che si salva da sola – è chiara dai titoli di testa. Ma sembra che ci si sia scordati di costruirci intorno un film. Su tutto aleggia un’aria di pigrizia che porta a chiedersi se la produzione abbia pensato che un concept attuale e il nome della star bastassero a creare buzz e giustificare l’uscita. Di sicuro non bastano a fare un buon fantasy. Damsel appartiene a quella categoria di prodotti di seconda o anche terza fascia che sembrano esistere per rispettare obblighi contrattuali più che per raccontare una storia.

Nell’imprecisato Nord di un imprecisato mondo medievale le cose vanno male. Il regno è in preda alla carestia e i sovrani hanno bisogno di rimpolpare le loro finanze. Così danno in sposa la principessa Elodie (Millie Bobby Brown) al principe di una casa reale vicina. Nonostante il matrimonio combinato la ragazza è felice di aiutare il proprio popolo. Non può immaginare che le nozze siano una trappola, e lei la vittima sacrificale di un drago che esige sangue di giovani principesse per garantire l’incolumità al regno. Scagliata nella tana del mostro si trova a lottare per sopravvivere. Ma il principe azzurro (direbbe Bennato) stavolta forse non viene..

C’è un problema in Damsel che non è “il” problema, ma aiuta a spiegare perchè il film non funziona. Se il fantasy è anzitutto world building – la capacità di prendere per mano il pubblico e portarlo a scoprire un universo con le sue regole e caratteristiche – allora Damsel gioca già in partenza con un handicap: come molti fantasy pensati direttamente per il piccolo schermo, il suo impianto visivo non è all’altezza del compito. Design, effetti speciali, varietà degli ambienti sono tutte frecce che al suo arco mancano, a tratti in modo abbastanza imbarazzante.

Il punto è che questo potrebbe anche non essere un problema. The Witcher (checchè se ne pensi prodotto di tutt’altro livello) non brilla certo per le sue visuals. Perfino Game of Thrones, l’apice assoluto dei valori produttivi fantasy su piccolo schermo, visivamente non può competere coi budget a otto zeri dei film hollywoodiani. Da Damsel non si pretende che sia “bello da vedere” ma che superi questo limite con l’ingegno, le idee narrative e perchè no, la vis politica. Invece il film è talmente vuoto di sostanza da sembrare quasi un abbozzo, la versione filmata del pitch di un’idea (quello che si porta ai produttori per farsi finanziare) piuttosto che il film finito. Non c’è tensione drammatica, non c’è – nel modo più assoluto – capacità di mettere in scena l’azione; peggio di tutto non c’è un’estetica, una personalità che mostri la cura e la passione riposte nella creazione di questo mondo fantastico.

In altre parole, non c’è magia.

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