Dampyr, la recensione

La grande ambizione produttiva e il desiderio di giocare nell'arena internazionale portano Dampyr a sfruttare male le proprie carte

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Dampyr, il film in uscita il 28 ottobre nei cinema italiani

È sbagliato considerare Dampyr come un film italiano. Nonostante i capitali siano italiani, la creatività sia italiana, l’origine del personaggio sia italiana e la lavorazione sia stata tutta italiana, l’obiettivo è di dimenticare il cinema italiano in ogni modo e accreditarsi sulla scena mondiale aderendo ai modelli internazionali il più possibile. Modelli che sono ovviamente i cinecomic ma non nella loro versione più colossale (i mezzi sono sì imponenti, ma per i nostri standard) quanto in una più europea e contenuta. I film di Gabriele Mainetti (ma in modi diversi anche il Diabolik dei Manetti o Il ragazzo invisibile) cercano di colmare questo medesimo gap inserendo stimoli, idee e un tono che ci appartengono, così che l’impianto da cinecomic non soffra del paragone con l’estero e invece di essere una versione a ribasso della Marvel sia il campione di un nuovo campo ibrido, uno che mette insieme testa italiana e generi stranieri. Dampyr invece vuole giocare nell’arena mondiale e farlo obbedendo a tutte le sue regole. Tutte tutte. Fino alla fine. E inevitabilmente ne esce con le ossa rotte. 

La storia è quella del fumetto Bonelli, cioè nei Balcani degli anni ‘90, durante la guerra, un gruppo di soldati aggredito e massacrato da vampiri si rivolge ad un Dampyr (cacciatore di vampiri con poteri paragonabili) per un aiuto. Sarebbe in realtà un ciarlatano che truffa i paesani, con sua stessa sorpresa però si scopre essere davvero ciò che fino a poco prima millantava, un mezzosangue figlio di un’umana e di un Maestro della Notte. Aiutato da una vampira in contrasto con il suo Maestro, ben presto avrà chiaro che lo scontro con il padre è inevitabile.

Questo primo passo in un territorio nuovo per il cinema italiano, fatto con ambizioni molto grandi e le intenzioni migliori, è ancora diversi gradini dietro allo standard mondiale che sarebbe lecito desiderare. Dampyr è un film di serie B nella sua accezione più stretta e tecnica, cioè un film tutto concentrato sull’intreccio e poco sui personaggi, in cui ogni svolta viene dall’azione e non dalla speculazione, che tuttavia non è dotato delle spalle larghe del miglior cinema di serie B, ne ha solo l’utilizzo smodato di convenzioni e la determinazione a procedere per schemi fissi ben noti.

Sia chiaro che le idee e i momenti buoni ci sono pure in Dampyr, ma non bastano mai. Del resto quando in un cinecomic anche l’azione è ben fatta ma terribilmente generica, tarata sulle medesime dinamiche di scontro, le stesse mosse, le stesse pose e le stesse azioni che si vedono ovunque e nemmeno con impressionanti evoluzioni, c’è un problema. Un problema di fusione tra messa in scena e racconto perché l’azione, pur essendo molta, non è mai usata per raccontare qualcosa o qualcuno ma è sempre un interludio da sbrigare tra fasi di dialogo esplicativo.

Se quindi l’impostazione è questa, quella di un film che non vuole stupire né essere unico o originale in nessuna maniera, la realizzazione oscilla tra il molto curato (la mole produttiva è chiara, la grandezza delle scenografie e la meticolosità del trucco sono evidenti, la mano di Chemello è evidente) e il male sfruttato. Con un impianto visivo non all’altezza tutte le armi che poteva avere Dampyr non le sfrutta. A partire da un casting che ricalcando i volti dei fumetti non ha trovato attori a livello. Lo si vede quando arriva un’enfasi fortissima su battute che non hanno di loro una vera enfasi e la colonna sonora, che corre prontamente in soccorso, in realtà fa peggio. Infine un doppiaggio italiano scollatissimo finisce di uccidere le interpretazioni, quando non proprio affossa il resto con le più convenzionali risate malvagie.

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