Cyrano, la recensione | Roma 16

Una delle versioni migliori della storia di Cyrano de Bergerac trova nel regista più irrequieto la messa in scena che meglio dialoga con la realtà

Critico e giornalista cinematografico


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Cyrano, la recensione | Roma 16

Tutte le sue spiegazioni Cyrano le dà subito, nell’attacco. Mette in chiaro le sue idee e soprattutto che qui Roxanne non è una damigella in attesa di essere salvata. Lo dice a chiaramente in un film che per fortuna farà di lì in poi un uso molto migliore delle parole e che di fatto si basa sulla loro forza. La storia di Cyrano de Bergerac è quella di una persona respingente per via di un difetto fisico (un naso irrealmente grande) le cui parole però sono così potenti da sovvertire tutto, nonostante lui non ci creda. Non è la storia di un brutto che conquista una bella (anzi la fa conquistare ad un altro) ma di un brutto che conquista il pubblico. Ben prima di Roxanne siamo noi ad essere conquistati da Cyrano, attirati da qualcuno che non dovrebbe attirarci, capaci di andare oltre l’apparenza.

E Peter Dinklage, grazie al quale il naso grande viene sostituito dal nanismo, ci conquista immediatamente. Il suo carisma naturale che è stato così ben sfruttato da Il trono di spade, lo rende immediatamente affascinante e al tempo stesso aiuta l’immedesimazione. Il naso irreale dei passati Cyrano del cinema (Depardieu il più classico, Steve Martin il più centrato) era una caratteristica troppo teatrale, il vero nanismo di Dinklage dialoga invece in modi interessanti con la realtà. Mentre vediamo Cyrano essere a livello di tutti i suoi avversari (se non migliore) nonostante l’altezza, sappiamo di guardare un attore che è arrivato ad essere a livello di tutti gli altri (se non migliore) nonostante un’altezza che lo pone al di fuori dei canoni estetici cui i grandi film sono affezionati.

Con un Christian giustamente privo di qualità, bello senza sapore, lo charme naturale di Dinklage ha la strada spianata per creare un eroe romantico in costume che funzioni anche oggi, in un tempo passato generico e in un paese generico (è girato in Italia ma i luoghi sono confusi e nessuno vuole identificarli). Sembra quasi cercare di nascondere se stesso e la propria natura di regista irrequieto Joe Wright, da sempre animato dall’horror vacui della noia, che tende a saturare le immagini e battere di continuo sul rullante del ritmo. Qui non sceglie né la decostruzione temporale di Espiazione né la fantasia (irresistibile) di Anna Karenina, ma uno stile più sobrio che sfoga la sua ricerca d’attenzione nel reparto costumi (curato da Massimo Cantini Parrini), che si disinteressa alle banali parti cantate e che invece si esalta negli scenari, nella scelta dei luoghi, delle scene e della stanze per i duelli verbali dei personaggi.
Teatrale sì (in fondo da lì viene questa versione) ma con stile cinematografico.

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