Cyberbunker: nelle profondità del dark web, la recensione

Una delle storie di criminalità informatica più clamorose dei nostri anni diventa in Cyberbunker un documentario con eccesso di foga

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Cyberbunker: nelle profondità del dark web, il documentario di Netflix

Il format del documentario Netflix è micidiale. Anche una storia molto interessante come quella di Cyberbunker esce martoriata dall’eccesso di ricostruzioni, enfasi, musiche drammatiche e inquadrature da drone. È la versione mortale delle idee di La sottile linea di blu di Errol Morris, il documentario che aveva perfezionato e fissato la forma documentaria con immagini ricostruite (o anche solo filmate per l’occasione) per accompagnare uno stile di racconto che aveva il passo delle storie di finzione, “scritte” più che raccontate e basta dai protagonisti.

Cyberbunker con la versione perversa di questa forma mette in fila enfaticamente la storia di Xennt, l’uomo che a partire da metà anni ‘90 ha iniziò a immaginare e poi mettere in piedi per due volte la sua idea di società informatica clandestina dentro un bunker. Prima nei Paesi Bassi e poi in Germania acquistò un bunker antiatomico dal quale portare avanti attività illegali online, principalmente attacchi DDoS e hosting di siti senza nessuna barriera all’ingresso (il limite era fissato per tenere fuori solo materiale terrorista e pedopornografico).

È una storia abbastanza clamorosa sfociata in una delle più grandi operazioni contro la criminalità informatica dei nostri anni, e la forza del documentario sta nel poterla raccontare con una buona parte dei veri protagonisti, cioè le persone che erano state con Xennt in quel bunker. Al di là della cronaca dei fatti è proprio quella la parte più significativa, la storia di come un nucleo di persone con una ottima esperienza e ottime competenze informatiche ma anche ideali (perversi o non) di ferro, avessero scelto un luogo senza finestre come propria famiglia e avessero trovato un posto in cui essere felici. 

Il Cyberbunker non era solo una base operativa ma una casa, una forma di alloggio di cui tutti parlano benissimo ad oggi, anche dopo l’arresto, una specie di rete di rapporti informali che diventano in un certo senso aggregazione politica. Come raccontano anche i molti film di finzione che hanno adattato storie vere di criminali informatici, il confine tra attivismo politico e crimine per tornaconto personale è sempre sottile e in certi casi pretestuoso. Tutto questo posiziona Cyberbunker nel punto più giusto e interessante, è semmai il suo disperato interesse nel fare del documentario anche un appassionante thriller a remargli contro.

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