Cry Macho, la recensione
Cry Macho di Clint Eastwood non è un film testamento ma un altro prezioso tassello che, lucidamente, (de)costruisce il mito di Eastwood con il suo profondo senso di bontà e dignità.
Se c’è qualcosa che Clint Eastwood ha reso indistruttibile alla prova del tempo, in decenni di carriera davanti e dietro la macchina da presa, è quel profondo senso di dignità dell’individuo - e della sua figura in primis - che pervade ogni sua opera. Per questo motivo (e per la quantità incalcolabile di volte in cui Eastwood ha messo in discussione il suo essere eroe e tough man, con Unforgiven che forse riassume ogni discorso) è forse poco sensato chiedersi se Cry Macho sia un film testamento: Cry Macho vive di quella dignità guadagnata. E, nonostante tutto intorno a lui (la semplicità della storia, il ritmo lento e l'andamento claudicante) sia potenzialmente un elemento a sfavore, Eastwood prende tutto questo e lo rende sensato, utile, emozionante. Una magia che solo una mano così esperta e controllata come la sua riesce a fare.
In Cry Macho però non c’è nessuna rabbia, nessuna cattiveria. Nessuna ansia di arrivare, ma un senso di rilassato godimento per un viaggio inaspettato. È la bontà (della gente comune, di una vedova messicana), insieme alla sopracitata dignità, ciò che interessa raccontare, l’intento e il cuore del film. Su questo intento e sulla sua riuscita non ci sono dubbi, e Cry Macho riesce ad evitare il ridicolo e il patetico potenziali proprio perché Eastwood ha sempre il controllo di sé stesso, della sua immagine, del tono del film. Se ci fosse stato chiunque altro al posto di Eastwood, insomma, il film sarebbe stato decisamente poco credibile. E invece così lo è eccome.
Ironico e non ridicolo, riflessivo ma non cinico, dubbioso ma sempre speranzoso, il lungamente progettato Cry Macho (scritto dallo stesso sceneggiatore di Gran Torino e The Mule Nick Schenk, adattamento del produttivamente tormentato romanzo del 1975 di N. Richard Nash) è un film su un cowboy che deve solo proteggere e che si ritrova anche a crescere e a formare, che non deve imparare davvero più nulla ma che ha tanto da insegnare. Senza paternalismo, ma con la schiettezza proverbiale di Eastwood, che in un breve monologo ancora una volta riassume totalmente il senso del film e del suo personaggio (ma forse anche della sua figura cinematografica): che idiozia voler fare il macho. Più invecchi, meno risposte hai. La vera libertà è, in fin dei conti, soltanto quella di scegliere.
Che classe, che stile: anche quando non vuole colpire, anche quando non vuole meravigliare o sorprendere, Clint Eastwood riesce sempre a fare un discorso. Con la sua immagine, con il suo cinema. Ecco perché è ancora un maestro.
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