Crouching Tiger, Hidden Dragon: Sword of Destiny, la recensione

Impensabile seguito di La Tigre e il Dragone, Sword of Destiny è una macchina pensata per sfruttare un titolo noto. Indegno wuxia pan da esportazione

Critico e giornalista cinematografico


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La protagonista era la spada e lo è di nuovo, a parte lei però questo secondo capitolo di La Tigre e il Dragone disponibile da oggi in tutto il mondo su Netflix non ha molto in comune con il primo. C’è il medesimo autore letterario da cui viene la storia (Du Lu Wang), il medesimo coordinatore degli stunt ora promosso a regista (Woo-Ping Yuen), c’è Michelle Yeoh e un tecnico del suono. Fine. Niente altro hanno in comune i due film, di certo non quel tono tra il melò e il sogno, tra l’armonia orientale e il rigore delle trame commerciali occidentali.

Per fare il remake del film che portò in occidente la cultura dei wuxia pan era legittimo chiedere qualcosa di più, ma forse è proprio per non fare qualcosa di più che si è scelto di nascondersi dietro un titolo così grosso e dietro la partecipazione di una star del cinema di arti marziali come Donnie Yen.

La storia è di nuovo un triangolo di sentimenti e addestramenti in cui donne e uomini lottano per il possesso della spada, a mancare invece è la sorprendente capacità di lavorare su due piani (gli adulti e i ragazzi), senza avere niente altro con cui sostituirla. Sword of destiny è un wuxia pan dei più generici, privo del rigore dei prodotti autentici o dell’aura della tradizione cinese. Ripudiato in patria, dove l’hanno subito etichettato come un film che contrabbanda un genere cinese per un pubblico occidentale (a partire dal fatto che è recitato in inglese), dovrebbe se non altro conquistare l’altra parte del mondo ma sembra davvero improbabile possa farlo.

Il segreto non difficile da scoprire del film precedente era Ang Lee, autore che come pochi è in grado di comprendere il gusto occidentale e lavorare sul melò per trasformare, adattare e piegare gli stili orientali a tempi buoni per un altro pubblico.

Girato in fretta e furia con un uso spietato di pessima computer grafica, combattimenti privi di alcuna personalità o stile visivo (e per il genere è forse la pecca maggiore), Sword of destiny, nonostante le partecipazioni importanti, è accomunabile ad un film di serie B, cinema d’exploitation molto poco riuscita. Impensabile anche solo immaginare che una simile svogliata accozzaglia di patina cineseggiante possa reggere il peso del titolo che porta.

Parte di un accordo tra Netflix e The Weinstein Company, Sword of destiny doveva uscire al cinema e sulla piattaforma on demand contemporaneamente, ma sembra che i piani siano stati rivisti (non uscirà in tutte le sale ma solo in alcuni IMAX).

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