Criminal (seconda stagione): la recensione
Criminal torna con quattro nuovi convincenti episodi ambientati nella stanza degli interrogatori
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Una serie come Criminal deve elaborare la propria premessa puntando sulle contraddizioni, e questa seconda stagione ci riesce. Ogni caso deve essere speciale, deve presentare degli elementi di eccezionalità, che possono derivare da tematiche iniettate nei dialoghi o nelle caratteristiche dei personaggi. Ma deve in ogni caso emanciparsi dal rischio formulaico al quale un progetto di questo genere rischia di soccombere. Come detto, la vittoria della seconda stagione della serie Netflix consiste nell'aver centrato l'obiettivo. Altri quattro casi, se così si possono chiamare, molto diversi tra di loro, ognuno con le sue caratteristiche specifiche.
Qui invece c'è solo quella inglese, che è tornata con quattro puntate e alcune guest star che vale la pena sottolineare. C'è Sophie Okonedo, che rivedremo in Assassinio sul Nilo e nella serie della Ruota del Tempo. C'è Kit Harington in uno dei primi ruoli post-Game of Thrones. C'è Kunal Nayyar, il Raj di The Big Bang Theory che qui è sinceramente irriconoscibile. L'altra guest-indiziata è Sharon Horgan, che appare nel terzo episodio. I casi mantengono delle caratteristiche specifiche e una sofisticatezza di fondo che elevano il risultato finale oltre il più semplice procedurale poliziesco.
E poi c'è la consapevolezza dello spettatore, mai oggettiva, ma in balia delle concessioni di sceneggiatura offerte dalla scrittura di George Kay. Ma sapere tutto non risolve quasi sempre la discussione, nel momento in cui si arriva a parlare di violenza sessuale o di giustizia fai da te. Così, Criminal, se da un lato risolve narrativamente il nodo posto allo spettatore, dall'altro non lo lascia del tutto andare, rivestendo le proprie vicende con una patina di amarezza.
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