Criminal (seconda stagione): la recensione

Criminal torna con quattro nuovi convincenti episodi ambientati nella stanza degli interrogatori

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Criminal (seconda stagione): la recensione

Una serie come Criminal deve elaborare la propria premessa puntando sulle contraddizioni, e questa seconda stagione ci riesce. Ogni caso deve essere speciale, deve presentare degli elementi di eccezionalità, che possono derivare da tematiche iniettate nei dialoghi o nelle caratteristiche dei personaggi. Ma deve in ogni caso emanciparsi dal rischio formulaico al quale un progetto di questo genere rischia di soccombere. Come detto, la vittoria della seconda stagione della serie Netflix consiste nell'aver centrato l'obiettivo. Altri quattro casi, se così si possono chiamare, molto diversi tra di loro, ognuno con le sue caratteristiche specifiche.

La premessa della serie antologica è che tutto si svolge nella stanza degli interrogatori. C'è solo un vetro che separa la stanza in sé dalla sala in cui il resto del gruppo di agenti ascolta l'interrogato e pianifica le proprie strategie di caso in caso. Giusto un accenno di corridoio, quando questo c'è, ma per il resto le vicende di Criminal sono concentrate nell'angusto quadrato dove si fanno delle domande e si danno delle risposte. La prima stagione della serie presentava tre puntate e usciva come progetto europeo, accompagnando la versione britannica a quella tedesca, francese e spagnola.

Qui invece c'è solo quella inglese, che è tornata con quattro puntate e alcune guest star che vale la pena sottolineare. C'è Sophie Okonedo, che rivedremo in Assassinio sul Nilo e nella serie della Ruota del Tempo. C'è Kit Harington in uno dei primi ruoli post-Game of Thrones. C'è Kunal Nayyar, il Raj di The Big Bang Theory che qui è sinceramente irriconoscibile. L'altra guest-indiziata è Sharon Horgan, che appare nel terzo episodio. I casi mantengono delle caratteristiche specifiche e una sofisticatezza di fondo che elevano il risultato finale oltre il più semplice procedurale poliziesco.

In particolare, la tensione narrativa è filtrata dalla apparente domanda centrale sulla colpevolezza o innocenza della persona. Ma in fondo anche questa è solo una maschera, e non sempre influente ai fini dell'intreccio. Ciò che allora è importante, per ricollegarci all'inizio del discorso, sono le contraddizioni. Criminal ne presenta tante allo spettatore, e spesso gioca a non fornire tutti gli strumenti necessari ad avere le risposte. C'è quindi una sovrapposizione ideale tra i diversi gradi di consapevolezza coinvolti. C'è quella degli accusati, che dovrebbero sapere di essere innocenti o colpevoli, e invece si potrebbero trovare nella condizione di non capire del tutto la propria situazione. C'è quella degli agenti, che ascoltano e ignorano parte di quel che sa la controparte, ma potrebbero avere delle prove di cui noi stessi non siamo a conoscenza.

E poi c'è la consapevolezza dello spettatore, mai oggettiva, ma in balia delle concessioni di sceneggiatura offerte dalla scrittura di George Kay. Ma sapere tutto non risolve quasi sempre la discussione, nel momento in cui si arriva a parlare di violenza sessuale o di giustizia fai da te. Così, Criminal, se da un lato risolve narrativamente il nodo posto allo spettatore, dall'altro non lo lascia del tutto andare, rivestendo le proprie vicende con una patina di amarezza.

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