Creed, la recensione

Succube del mito di Rocky e della scrittura di Stallone, Creed non riesce a trovare una sua strada nè ad imitare lo stile della saga di cui è uno spin-off

Critico e giornalista cinematografico


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Il primo spin-off ufficiale della saga di Rocky non è stato scritto da Sylvester Stallone, come invece è accaduto per tutti gli altri capitoli, ma da Ryan Coogler (che ne è anche regista) e da Aaron Covington (ex tecnico del suono alla sua prima esperienza di scrittura). Per questo motivo è un’altra cosa rispetto alla serie e forse era meglio che fin dall’inizio fosse impostato per essere differente.
Creed invece tratta i 6 film del canone di Rocky come un canovaccio, strizza continuamente l’occhio e fa mille piccole citazione, assemblandone i momenti chiave per dar vita alla storia di un altro pugile che boxa per sé stesso, il figlio di Apollo Creed, storico sfidante e poi amico di Rocky. In questo il film non è diverso da Il risveglio della forza, perché è apertamente costruito sopra un testo che già tutti gli spettatori conoscono, disegnato ripassando con la matita le sue linee e cercando lo stesso di avere un proprio stile. Al contrario del film di Abrams però, le novità e il segno personale che ne esce non convincono mai davvero, Coogler guarda a Rocky (il film ma anche il personaggio) quando è sperduto e cerca di imitarlo con molta goffagine.

Questa storia di caduta e ascesa tramite lo sport, di rivincita personale e sconfitta dei propri demoni vuole instradarsi nel solco di una saga che è “genere” a sè, ma sembra non afferrarne le regole nè il punto ultimo. Stallone nei suoi alti e bassi ha sempre avuto presente cosa rendesse quel personaggio e quell’epopea importanti: cambiare la propria vita piegando la carne ad una volontà indomabile. Il protagonista di Creed non è veramente un outsider da tutto benché si professi tale (e più lo dice meno lo sembra), la sua vita ai margini, reietta e priva di qualsiasi attrattiva non è davvero tale (ha anche una ragazza bella con una bella storia d’amore), insomma Adonis figlio d’Apollo non è un perdente nato, ma un vincente con un problema che vuole risolvere boxando. Una storia differente che forse andava trattata diversamente per essere efficace invece che rimanere all’ombra non tanto del mito di Rocky, quanto di quello di Sylvester Stallone-autore, della sua poetica degli emarginati, degli ultimi e degli scemi per i quali parteggiamo in virtù della loro forza disperata.

Per quanto Coogler sembri aver introiettato le idee e lo spirito che John G. Avildsen aveva infuso nel primo film della serie, quell’umido, freddo e sporco della periferia di Filadelfia, quella maniera in cui amava catturare le luci del mattino e trasformare il degrado in paesaggio, lo stesso non c’è mai in Creed un momento di grezza disperazione che sia propedeutico alla scalata al successo. Non si respira mai quell’aria da ultimo stadio per uscire dal quale serve una determinazione fuori dal comune.
Per quanto sia difficile non amare un film che rispolvera musiche e volti, allenamenti e ambienti a cui già sono legati molti sentimenti, sui quali già qualcun altro ha fondato un immaginario di valori, è impossibile non ammettere che Creed è evidentemente tarato su un grado di coinvolgimento minore e quando alza la testa per essere all’altezza del mito che vuole portare avanti crea solo momenti imbarazzanti (uno per tutti: l’allenamento finale).

Non basta uno stacco di montaggio davvero riuscito (il momento migliore del film, quando si passa dal fermo immagine volto iconico di Carl Weathers in Rocky II al risveglio di colpo del figlio, traboccante di nuova volontà, un’associazione che da sola dice più di tutto il film) per salvare l’epica di un’opera che come può si appoggia a Stallone per dare plausibilità e concretezza alla storia. È una questione di narrazione, debole e claudicante come già quella di Fruitvale Station (film precedente di Coogler), una mancanza che si nota anche nelle scene di boxe, coreografate benissimo, con grande senso dinamico, dure e cattive, eppure lo stesso prive di drammaturgia interna.
Forse non era indispensabile fare di questo spin-off necessariamente un film nello stile di Rocky, forse poteva vivere di un genere autonomo (Warrior l'ha fatto e con successo), ma nel momento in cui la scelta è stata fatta che Creed non riesca ad andare fino in fondo o nemmeno ad essere un fantastico canto dei miti che si guardano indietro per celebrare la loro stessa mitologia, riaffermandola “un’altra volta” (come avviene in Rocky Balboa), è la vera grande delusione.

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