Cowboy Bebop (prima stagione): la recensione
Cowboy Bebop è un adattamento fedele e rispettoso dell'anime originale, ma questo comporta sia pregi che difetti
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Tra alcuni anni, ma nemmeno tanti, potremmo voltarci indietro e vedere la serie tv di Cowboy Bebop come uno spartiacque. Non per particolari meriti suoi, ma perché questo show si trova storicamente ad inaugurare una nuova ondata di adattamenti live action di anime e manga. Ne vediamo ancora i vaghi contorni all'orizzonte, ma è lì e sta arrivando. Un trend che, se tutto dovesse andare come deve, potrebbe dominare parte della scena nel prossimo decennio. Staremo a vedere. In ogni caso, Cowboy Bebop è qui, ed è probabilmente tutto ciò che un fan della serie anime poteva sperare: rispettoso, nostalgico, rassicurante, pieno di riferimenti da cogliere. Con tutti i pregi, ma anche i difetti che questo comporta.
Nulla di questa trama contrasta quella dell'anime, e poco o nulla lo farà nel corso delle dieci puntate. Tutti gli episodi sono in effetti rimaneggiamenti di storie già raccontate nel 1998 dalla serie di Shinichiro Watanabe. Cowboy Bebop sposa in pieno quell'idea di adattamento nostalgico che non concepisce la "deviazione rispetto al canone" (parole del produttore). E poco importa che in realtà non esista un canone rispetto al quale deviare: l'adattamento esiste in funzione di una riscrittura che non deve uscire da margini prefissati. La scenografia, le movenze, gli abiti, le musiche, le storyline. Chi temeva un effetto Dragon Ball Evolution dovrà ricredersi, quella è una parentesi morta e sepolta come l'approccio che vi era dietro.
A riscattare tanto in questa serie che comunque sia va promossa è il trio di protagonisti. Sono davvero scelte ispirate quelle dietro il casting di John Cho, Mustafa Shakir, Daniella Pineda. In quella ricerca certosina della trasformazione dell'animazione in live action, loro riescono davvero ad incarnare e trasmettere quel passaggio nello stile. Cho, mani in tasca e sigaretta in bocca, riesce a fondere quella malinconia sommersa del personaggio originale, velata dal continuo sarcasmo. Mustafa Shakir ha quella scontrosità e insofferenza del personaggio originale. Daniella Pineda è esplosiva, una forza inarrestabile ogni volta che è in scena. Al di là delle trame e delle sparatorie, stare in loro compagnia è sempre piacevole, anche solo per ascoltarli battibeccare e insultarsi.
Il coinvolgimento di Yoko Kanno alle musiche si sposa con tutto il resto dell'approccio. È lì, ma sono soprattutto le musiche originali della serie quelle che riascoltiamo ancora, sempre a risvegliare in noi quel confortevole senso di ritorno a casa. I maggiori cambiamenti allora risiedono nelle trame di Vicious e Julia (Alex Hassell e Elena Satine), soprattutto per esigenze narrative, dato che il minutaggio delle singole puntate dovrà raddoppiare. Sono cambiamenti che per tutta la durata della stagione francamente è difficile giustificare, ma che trovano un loro senso inatteso nel finale. Sarà interessante scoprire allora la direzione che prenderà la seconda stagione.
Il confronto con l'anime andrebbe evitato, ma visto che è la serie a cercarlo così tanto, allora va detto che non riesce mai ad avvicinarsi a quel risultato. Questo è un adattamento che vive solo di luce riflessa. Sì, il casting è brillante e la scrittura funziona, ma la serie Netflix non riesce mai a restituire quel cuore malinconico, quel senso di solitudine che accomunava tutti i personaggi, quel vuoto interiore che si rispecchiava nel vuoto stellare. Il senso di morte latente e precarietà, straordinarie vite anche di personaggi secondari che si sfioravano per lo spazio di una puntata, ognuna destinata a tornare alla deriva nel cosmo. Ognuno solo da sempre e per sempre.