Cowboy Bebop (prima stagione): la recensione

Cowboy Bebop è un adattamento fedele e rispettoso dell'anime originale, ma questo comporta sia pregi che difetti

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Cowboy Bebop (prima stagione): la recensione

Tra alcuni anni, ma nemmeno tanti, potremmo voltarci indietro e vedere la serie tv di Cowboy Bebop come uno spartiacque. Non per particolari meriti suoi, ma perché questo show si trova storicamente ad inaugurare una nuova ondata di adattamenti live action di anime e manga. Ne vediamo ancora i vaghi contorni all'orizzonte, ma è lì e sta arrivando. Un trend che, se tutto dovesse andare come deve, potrebbe dominare parte della scena nel prossimo decennio. Staremo a vedere. In ogni caso, Cowboy Bebop è qui, ed è probabilmente tutto ciò che un fan della serie anime poteva sperare: rispettoso, nostalgico, rassicurante, pieno di riferimenti da cogliere. Con tutti i pregi, ma anche i difetti che questo comporta.

In un prossimo futuro, l'umanità ha colonizzato parte del sistema solare e si sposta tra i pianeti e i satelliti utilizzando degli speciali gate. In questa nuova frontiera spaziale che rinnova il mito del west in una cornice fantascientifica, ci sono delinquenti e cacciatori di taglie, i cosiddetti cowboy. Seguiamo la storia di un gruppo di questi: Spike Spiegel, sarcastico e taciturno, Jet Black, proprietario della nave Bebop, e Faye Valentine, scaltra e irruenta, che si unirà al gruppo. La serie racconta le loro avventure, tanto quelle episodiche, quanto quelle che fanno capo ad una trama più ampia. Questa si riferisce soprattutto al passato misterioso di Spike, e ai suoi legami con un criminale di nome Vicious e una donna di nome Julia.

Nulla di questa trama contrasta quella dell'anime, e poco o nulla lo farà nel corso delle dieci puntate. Tutti gli episodi sono in effetti rimaneggiamenti di storie già raccontate nel 1998 dalla serie di Shinichiro Watanabe. Cowboy Bebop sposa in pieno quell'idea di adattamento nostalgico che non concepisce la "deviazione rispetto al canone" (parole del produttore). E poco importa che in realtà non esista un canone rispetto al quale deviare: l'adattamento esiste in funzione di una riscrittura che non deve uscire da margini prefissati. La scenografia, le movenze, gli abiti, le musiche, le storyline. Chi temeva un effetto Dragon Ball Evolution dovrà ricredersi, quella è una parentesi morta e sepolta come l'approccio che vi era dietro.

Adesso domina, e dominerà nei prossimi anni, un'adesione totale e cieca al materiale originale, rassicurante, che presuppone un dialogo implicito con lo spettatore consapevole. Che può e deve cogliere ogni riferimento. È l'esaltazione della cultura pop intesa come feticcio da celebrare, e mai come mezzo per raccontare altro, (divertente che nella serie venga citato Blade Runner, che invece tradiva completamente la sua fonte). Qualcuno, tempo fa, avrebbe forse posto l'obiezione che tutto questo avrebbe portato ad un effetto cosplay. Non qui, non più. Ma non è detto che questa sensazione ogni tanto non arrivi durante la visione delle puntate (vedi look di Vicious). O che l'adattamento pedissequo di scene dell'anime – anche le più drammatiche e memorabili – non faccia per un momento pensare di trovarsi di fronte ad un costosissimo fan-film.

A riscattare tanto in questa serie che comunque sia va promossa è il trio di protagonisti. Sono davvero scelte ispirate quelle dietro il casting di John Cho, Mustafa Shakir, Daniella Pineda. In quella ricerca certosina della trasformazione dell'animazione in live action, loro riescono davvero ad incarnare e trasmettere quel passaggio nello stile. Cho, mani in tasca e sigaretta in bocca, riesce a fondere quella malinconia sommersa del personaggio originale, velata dal continuo sarcasmo. Mustafa Shakir ha quella scontrosità e insofferenza del personaggio originale. Daniella Pineda è esplosiva, una forza inarrestabile ogni volta che è in scena. Al di là delle trame e delle sparatorie, stare in loro compagnia è sempre piacevole, anche solo per ascoltarli battibeccare e insultarsi.

Il coinvolgimento di Yoko Kanno alle musiche si sposa con tutto il resto dell'approccio. È lì, ma sono soprattutto le musiche originali della serie quelle che riascoltiamo ancora, sempre a risvegliare in noi quel confortevole senso di ritorno a casa. I maggiori cambiamenti allora risiedono nelle trame di Vicious e Julia (Alex Hassell e Elena Satine), soprattutto per esigenze narrative, dato che il minutaggio delle singole puntate dovrà raddoppiare. Sono cambiamenti che per tutta la durata della stagione francamente è difficile giustificare, ma che trovano un loro senso inatteso nel finale. Sarà interessante scoprire allora la direzione che prenderà la seconda stagione.

Il confronto con l'anime andrebbe evitato, ma visto che è la serie a cercarlo così tanto, allora va detto che non riesce mai ad avvicinarsi a quel risultato. Questo è un adattamento che vive solo di luce riflessa. Sì, il casting è brillante e la scrittura funziona, ma la serie Netflix non riesce mai a restituire quel cuore malinconico, quel senso di solitudine che accomunava tutti i personaggi, quel vuoto interiore che si rispecchiava nel vuoto stellare. Il senso di morte latente e precarietà, straordinarie vite anche di personaggi secondari che si sfioravano per lo spazio di una puntata, ognuna destinata a tornare alla deriva nel cosmo. Ognuno solo da sempre e per sempre.

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