The Counselor, la recensione
Il nuovo film di Ridley Scott è in realtà il primo da sceneggiatore di Cormac McCarthy e il matrimonio tra i due dà vita ad un'opera unica dall'ambientazione molto potente...
C'è un killer dalle pochissime parole che vaga solitario per le lande dell'America del sud (no, in realtà è il Messico, ma sembra) uccidendo in maniere poco convenzionali, c'è la droga, c'è un'umanità spietata senza nessun rispetto per la vita, c'è un atteggiamento abbastanza smaliziato nei confronti dell'efferata violenza e c'è l'ingiustizia del caso. E' chiaro che Cormac McCarthy non può essere lontano.
Il piacere di guardare The Counselor è infatti dato dalla vera e tangibile unione di un modo di scrivere e uno di guardare, che creano un risultato superiore agli addendi. I moltissimi dialoghi di questo film in cui un avvocato sprovveduto si ritrova perso nel mondo della droga ad alti livelli, praticamente condannato a morte da una coincidenza ingiusta e dallo spietato disinteresse che "il cartello" ha per la vita delle persone, sono la manifestazione del racconto di McCarthy, mentre gli interni in bilico tra eccesso pacchiano e arte moderna (come del resto anche gli abiti) assieme alla presenza degli "altri", dei passanti, come comparse nel pianeta e nella vita dei personaggi, sono la maniera in cui Ridley Scott immagina queste parole, in un tripudio di lusso che confina con l'orrendo, nel disinteresse generale del resto dell'umanità astante e immerso in esagerate manifestazioni di potere (la scena già epica della spaccata sul parabrezza questo è: potere allo stato puro, potere sugli uomini, sugli oggetti, sul lusso e sul corpo proprio e degli altri).
L'assurdo, il poco convenzionale e il sorprendente sono la regola in questo spaccato di un minuscolo gruppo di persone nello sconfinato universo che è il traffico di droga tra Messico e Stati Uniti, un microverso di "uomo mangia uomo" fenomenale che va più a fondo di The Road e, in un certo senso, di Non è un paese per vecchi e davvero mostra un mondo in cui non c'è limite all'orrore che può accadere (da cui la mancata visione del DVD finale, a quel punto è evidente che ci possono essere dentro cose oltre ogni immaginazione).
Intendiamoci, non tutto è perfetto (a sorpresa non lo è Michael Fassbender, molto incerto, per fortuna Cameron Diaz rende alla perfezione la caratura colossale del suo personaggio) ma è evidente che la poca voglia di vivere, la chiara inclinazione a morire e l'ingiusta imposizione del volere di un elite potentissima e invisibile (particolare determinante: l'assenza del cartello così tanto nominato lo rende intangibile, inarrivabile, gente con cui non si può nemmeno provare a trattare, veri mostri) sono un'ambientazione così clamorosa che questo film di dialoghi, racconti e aneddoti che lasciano di stucco gli stessi assurdi personaggi che li raccontano, riesce a trovare in questo microverso la grande metonimia di McCarthy vista da Ridley Scott: oggetti che parlano di un'umanità dominata dall'ingiustizia del caso e da un'esistenza in cui nulla ha senso se non la maniera in cui la morte incombe.