The Counselor, la recensione

Il nuovo film di Ridley Scott è in realtà il primo da sceneggiatore di Cormac McCarthy e il matrimonio tra i due dà vita ad un'opera unica dall'ambientazione molto potente...

Critico e giornalista cinematografico


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C'è un killer dalle pochissime parole che vaga solitario per le lande dell'America del sud (no, in realtà è il Messico, ma sembra) uccidendo in maniere poco convenzionali, c'è la droga, c'è un'umanità spietata senza nessun rispetto per la vita, c'è un atteggiamento abbastanza smaliziato nei confronti dell'efferata violenza e c'è l'ingiustizia del caso. E' chiaro che Cormac McCarthy non può essere lontano.

La prima sceneggiatura originale per il cinema dell'ottantenne scrittore americano è evidentemente figlia di tutto quel che l'autore ha scritto in carriera e in particolar modo di quello che il cinema ha utilizzato della sua produzione. Forse lo sarebbe stata anche di più non fosse per la mano di Ridley Scott.

Il piacere di guardare The Counselor è infatti dato dalla vera e tangibile unione di un modo di scrivere e uno di guardare, che creano un risultato superiore agli addendi. I moltissimi dialoghi di questo film in cui un avvocato sprovveduto si ritrova perso nel mondo della droga ad alti livelli, praticamente condannato a morte da una coincidenza ingiusta e dallo spietato disinteresse che "il cartello" ha per la vita delle persone, sono la manifestazione del racconto di McCarthy, mentre gli interni in bilico tra eccesso pacchiano e arte moderna (come del resto anche gli abiti) assieme alla presenza degli "altri", dei passanti, come comparse nel pianeta e nella vita dei personaggi, sono la maniera in cui Ridley Scott immagina queste parole, in un tripudio di lusso che confina con l'orrendo, nel disinteresse generale del resto dell'umanità astante e immerso in esagerate manifestazioni di potere (la scena già epica della spaccata sul parabrezza questo è: potere allo stato puro, potere sugli uomini, sugli oggetti, sul lusso e sul corpo proprio e degli altri).

Ghepardi al guinzaglio osservati in caccia e tenuti nel retro del SUV, diamanti tagliati in maniere classiche o moderne sono tutte manifestazioni di un mondo elitario tanto quanto il macchinario per decapitare raccontato dallo spaccone interpretato da Brad Pitt o gli abiti di Javier Bardem.

L'assurdo, il poco convenzionale e il sorprendente sono la regola in questo spaccato di un minuscolo gruppo di persone nello sconfinato universo che è il traffico di droga tra Messico e Stati Uniti, un microverso di "uomo mangia uomo" fenomenale che va più a fondo di The Road e, in un certo senso, di Non è un paese per vecchi e davvero mostra un mondo in cui non c'è limite all'orrore che può accadere (da cui la mancata visione del DVD finale, a quel punto è evidente che ci possono essere dentro cose oltre ogni immaginazione).

Intendiamoci, non tutto è perfetto (a sorpresa non lo è Michael Fassbender, molto incerto, per fortuna Cameron Diaz rende alla perfezione la caratura colossale del suo personaggio) ma è evidente che la poca voglia di vivere, la chiara inclinazione a morire e l'ingiusta imposizione del volere di un elite potentissima e invisibile (particolare determinante: l'assenza del cartello così tanto nominato lo rende intangibile, inarrivabile, gente con cui non si può nemmeno provare a trattare, veri mostri) sono un'ambientazione così clamorosa che questo film di dialoghi, racconti e aneddoti che lasciano di stucco gli stessi assurdi personaggi che li raccontano, riesce a trovare in questo microverso la grande metonimia di McCarthy vista da Ridley Scott: oggetti che parlano di un'umanità dominata dall'ingiustizia del caso e da un'esistenza in cui nulla ha senso se non la maniera in cui la morte incombe.

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