[Cannes] Cosmopolis, la recensione

Non semplice e per nulla commerciale, il nuovo film di Cronenberg è un racconto non lineare che declina il senso ultimo della decadenza e del crollo. Umano e sociale...

Critico e giornalista cinematografico


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C'è un romanzo strano forte che viene adattato per il cinema da un regista strano forte anche lui. Il secondo non tocca quasi nulla dei dialoghi del primo, pensando solo a riorganizzare la narrazione per il medium che usa. In più come in una cover musicale (parole dello stesso regista) non cambiando niente di parole e melodia, spazia in creatività su tutto il resto.

Il risultato è David Cronenberg's Cosmopolis, un film che racconta sostanzialmente di un miliardario che gira in una limousine progettata per essere un'alcova, in cui c'è tutto (gabinetto incluso) e che costringe chiunque lo voglia incontrare a entrarvi dentro. La storia si apre con la decisione di andarsi a tagliare i capelli dall'altra parte della città dal barbiere in cui se li faceva tagliare il padre, il viaggio che ne consegue è una lenta disgregazione del mondo fuori dalla limousine (il cui sonoro è quasi sempre otturato dai vetri spessi) e decadimento fisico del protagonista (già di suo mutilato e sempre più colpito, ferito, svestito e via dicendo).

C'è tutto il senso stesso di mutazione nelle 24 ore in cui si svolge la non-storia delirante di Cosmopolis, il mutamento cronenberghiano che diventa decadenza di una persona singola e di una società che gli sta intorno. I ratti che contagiano tutto, le rivolte, il vandalismo e ancora il funerale con bara di vetro, le donne, il sesso e infine il grande confronto. Un film che diventa postatomico senza l'atomica.

Il viaggio del protagonista verso la propria infanzia (il barbiere del padre per l'appunto) è ricostruito con un eccesso di verbosità e dialoghi al limite del metaforico spinto (forse la cosa peggiore), oltre a un percorso interiore che è odissea esteriore. Ci sono pochissimi (se non nessun) riferimento effettivo a Il posto delle fragole ma è invece presente un'implicita idea di seguire quell'idea di racconto e percorso "narrativo".

Il risultato alla fine di tutto è lo specchio del caos che lentamente pervade la società e il protagonista. Un film in cui il mood conta più dei contenuti e nel quale alla fine il senso generale di spaesamento e il passaggio tra l'economico, il sociale, l'umano e il carnale (molti i riferimenti al degrado e alle malattie biologiche) restituiscono un senso raro di decadenza, crollo e anarchia. Se Godzilla è la paura dell'atomica e della distruzione subita, Cosmopolis è la paura della crisi economica, sociale e politica occidentale (si, anche se è stato scritto nel 2003).

Insomma si tratta di un film tutt'altro che facile, tutt'altro che commerciale e forse tutt'altro che pienamente riuscito. Lo stesso però è un'esperienza che non si dimentica in fretta nè si può liquidare in due parole.

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