[Cannes] Cosmopolis, la recensione
Non semplice e per nulla commerciale, il nuovo film di Cronenberg è un racconto non lineare che declina il senso ultimo della decadenza e del crollo. Umano e sociale...
C'è un romanzo strano forte che viene adattato per il cinema da un regista strano forte anche lui. Il secondo non tocca quasi nulla dei dialoghi del primo, pensando solo a riorganizzare la narrazione per il medium che usa. In più come in una cover musicale (parole dello stesso regista) non cambiando niente di parole e melodia, spazia in creatività su tutto il resto.
C'è tutto il senso stesso di mutazione nelle 24 ore in cui si svolge la non-storia delirante di Cosmopolis, il mutamento cronenberghiano che diventa decadenza di una persona singola e di una società che gli sta intorno. I ratti che contagiano tutto, le rivolte, il vandalismo e ancora il funerale con bara di vetro, le donne, il sesso e infine il grande confronto. Un film che diventa postatomico senza l'atomica.
Il risultato alla fine di tutto è lo specchio del caos che lentamente pervade la società e il protagonista. Un film in cui il mood conta più dei contenuti e nel quale alla fine il senso generale di spaesamento e il passaggio tra l'economico, il sociale, l'umano e il carnale (molti i riferimenti al degrado e alle malattie biologiche) restituiscono un senso raro di decadenza, crollo e anarchia. Se Godzilla è la paura dell'atomica e della distruzione subita, Cosmopolis è la paura della crisi economica, sociale e politica occidentale (si, anche se è stato scritto nel 2003).
Insomma si tratta di un film tutt'altro che facile, tutt'altro che commerciale e forse tutt'altro che pienamente riuscito. Lo stesso però è un'esperienza che non si dimentica in fretta nè si può liquidare in due parole.