Corro da te, la recensione

Un remake molto fedele all'originale e al tempo stesso molto migliore, più brioso, più sensato e più affilato nelle sue intenzioni

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Corro da te, dal 17 marzo al cinema

Nonostante Corro da te sia un remake molto remake, uno cioè in cui ci sono quasi tutte le scene dell’originale, in cui le scenografie sono quasi uguali e anche alcuni movimenti di camera (negli snodi cruciali) sono importati, lo stesso è decisamente migliore del suo originale francese Tutti in piedi. Non ci voleva molto sia chiaro, quello era un film di rara lentezza e smodata inutilità, che non aveva mai la capacità di infondere nella sua storia un po’ di brio. Invece Riccardo Milani con Furio Andreotti e Giulia Calenda (sceneggiatori con i quali non è certo la prima volta che collabora) dalla stessa identica materia (vale la pena ripeterlo, anche con le stesse inquadrature alle volte) tira fuori un film piacevole con qualche anfratto quasi sorprendente e un po’ di sano senso del cinema.

Il merito, va detto subito, è soprattutto del lavoro più meticoloso della media che è andato sulla recitazione. Contrariamente a molte commedie italiane qui tutto il livello è medio alto, ogni personaggio, l’interpretazione di ogni personaggio, anche comprimario, è curata, messa a fuoco, scolpita con grande precisione. Come dovrebbe essere sempre e invece non è mai, la cosa dona un afflato di verità anche ad una trama abbastanza risaputa (l’ennesimo Canto di Natale, in cui uno Scrooge deve passare per un piccolo inferno per uscirne migliore e guadagnarsi l’umanità) e soprattutto dona ritmo alle interazioni. Così finalmente anche un tipo di film che sempre di meno sì gira per il cinema (la commedia romantica borghese) può essere sensato, ritmato e, quasi quasi, significativo.

Perché Favino il suo personaggio lo interpreta a fondo, è un bel demone da Alberto Sordi, una persona terribile già sulla carta su cui lui infierisce tantissimo, inserendo una punta di goduria e di sadismo ai comportamenti peggiori, recitando il godimento nell’essere cinico ed egoista e quel senso di superiorità di chi si percepisce migliore perché più furbo (peccato che poi, al contrario dei demoni sordiani, tutto sia ricondotto a più miti finali). E similmente il film non si tira indietro di fronte all’idea che l’amore sensibile e delicato al centro della storia nasca solo dopo che il protagonista che si finge paraplegico per un’avventura sessuale, ha dichiarato anche di essere ricco. Molto ricco. Corro da te proprio non fa mai mistero del fatto che il fascino del suo protagonista sulla bella violinista/tennista paraplegica venga dall’essere un bell’uomo e di successo. Così tanto che dispiace che il dettaglio rimanga nello sfondo e non sia mai affrontato, che aleggi e non sia parte di quel che il film vuole dire.

Una conversione finale smielata, molto molto lunga e stiracchiata ammazzerà l’ottimo ritmo segnato fino a quel punto, causando proprio un cambio di prospettiva. Tale e tanto è lo sforzo nel racconto del pentimento e poi mutamento del protagonista che Corro da te nel finale rivede il cuore del racconto, non è più la storia della truffa di un playboy che gli si ritorce contro, facendolo innamorare, ma la storia della conversione di un playboy e dei suoi rodimenti interiori (ancora più Canto di Natale quindi). E non è che questo salto finale gli giovi molto, specialmente per come tutta la prima parte, con il suo tono bello meschino aveva dimostrato di saper fare bene la satira di costume e sociale.

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