Corpus Christi, la recensione

Corpus Christi del polacco Jan Komasa è un film pieno di interrogativi sociali e teologici, con una forza spirituale incredibile e che non vuole dare risposte facili

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Corpus Christi, la recensione

È su un filo sottolissimo di significato, teso come una corda di violino e tagliente come la carta, che Corpus Christi osserva i suoi dilemmi sociali e teologici. Li offre ma non li spiega, li mostra ma non li dimostra, costruendo il testo filmico come un libro aperto, le cui pagine immaginarie sono fatte di sguardi e formule, riti e peccati, incorniciati da inquadrature sempre immobili. Momenti di pura contemplazione, che grazie alla presenza magnetica dell’ attore Bartosz Bielenia, scheletrico, fragile, ma con uno sguardo che brilla di (com)passione, e grazie alla mano ferma del regista Jan Komasa, annunciano la mera volontà di essere ambigui, irrisolti. 

L’ambiguità di Corpus Christi è però necessaria, ed è così forte e convincete perché afferma che la domanda è già la risposta, non si prodiga in forzature moralizzanti ma pone semplicemente in essere le sue ambivalenze. Corpus Christi fa questo nella misura in cui ci dice che il nostro agire e la fede si devono sempre misurare con una dimensione sociale e, insieme a questa, con una irrimediabile caduta nel peccato (inteso non per forza in senso teologico ma anche come atto socialmente sbagliato).

Corpus Christi parla di Daniel, un giovane che sta scontando una pena in riformatorio e che nella fede ha trovato una vocazione: vorrebbe infatti diventare sacerdote, ma quella strada gli è preclusa proprio per le sue condanne. Quando viene mandato in un piccolo paesino per lavorare in una segheria, un po’ per gioco, un po’ come esperimento, si finge prete, diventando però nel giro di poco il sostituto del parroco e un importante punto di riferimento spirituale per tutta la comunità. È infatti Daniel che si fa carico di curare la ferita aperta di molti di loro, genitori e parenti di sei ragazzi morti in un incidente un anno prima e che ancora stigmatizzano la vedova del conducente che, si presuppone, ha causato l’impatto per ubriachezza.

Il significato della parabola di Daniel scritta da Mateusz Pacewicz, sebbene parta con i presupposti del cinema dell’indagine sociale, si discosta fermamente da un interesse - narrativo e teologico - di redenzione. Corpus Christi non compie infatti alcuna indagine sui motivi che lo portano al riformatorio e su come il diventare prete lo renda una persona diversa o migliore (ci viene detto pochissimo sul suo passato e lui non parla mai di se stesso), né si vogliono analizzare le colpe (non si chiude mai la faccenda dell’incidente). Il discorso di Corpus Christi sta invece tutto nel presente, nel qui e ora, nella dimensione sociale che è essenzialmente anche fisica, fatta da un’insieme di individui che si coprono di maschere: come Daniel che indossa la maschera del prete, o i paesani che si mascherano da persone rette, nonostante vivano di cattiverie e peccati. 

In questo senso è nell’idea dello stigma che Corpus Christi articola al meglio il suo discorso, mostrando come la percezione di Daniel come individuo sociale non solo sia diametralmente opposta in base al contesto (un criminale nel riformatorio, un esempio in chiesa), ma sublimandone la stessa contraddizione nel momento in cui alla fine, davanti alla croce, il suo corpo fisico, svuotato di tutto il resto, è l’unica cosa reale e quindi autentica che rimane. A chi è buono di spirito, a chi ha fede, può bastare la dimostrazione di quell’autenticità? O certi stigmi sociali sono incancellabili? Se il sacerdote è colui che annuncia la parola di Dio ai fedeli, Daniel è certamente un prete migliore di chi lo ha preceduto, pur essendo privo della qualifica “istituzionale”. Ma cosa conta la qualifica, se il dono dell’enunciazione è già in lui? Jan Komasa non risponde a niente di tutto questo. Eppure, la forza della domanda vale più di mille risposte.

Cosa ne dite della nostra recensione di Corpus Christi? Scrivetelo nei commenti dopo aver visto il film!

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