Copperman, la recensione

Usando i supereroi solo come specchietto per le allodole, Copperman è un favolone a colori saturi nello stile di Jean-Pierre Jeunet

Critico e giornalista cinematografico


Condividi
C’è un equivoco forte alla base di Copperman, cioè l’idea che anche solo lontanamente parli di supereroi, ma non è un equivoco interno al film, frutto di una cattiva realizzazione, sta semmai tra lo spettatore e il film. In altre parole Copperman è esattamente il film che vuole essere, solo il titolo, i cartelloni e un po’ i trailer cercano di far intendere al pubblico che sia qualcosa di leggermente diverso.

Eros Puglielli (che aveva esordito con un film autarchico dedicato ai supereroi come Dorme) gira la storia di un Forrest Gump che si fa Iron Man senza tecnologia all’interno del favoloso mondo di Amelie. La dolcezza del primo immersa nello zucchero dell’ultima è l’obiettivo finale, dichiarato dalla prima inquadratura e perseguito per tutto il film senza timore di ricalcare tutto quel che farebbe Jean-Pierre Jeunet (al netto del suo senso macabro del grottesco).

Luca Argentero è il protagonista (più vicino al Simple Jack di Ben Stiller che a Forrest Gump a dire il vero), un bambino poi adulto con un lieve ritardo che è fissato con i supereroi degli albi a fumetti e che come reazione ai drammi che vive e vede intorno a sé decide di diventare egli stesso un eroe, in una piccola crociata contro un prepotente locale. In un tripudio di grembiuli stiratissimi e fiocconi per andare alle elementari lo vediamo crescere e innamorarsi teneramente, tentare i primi salvataggi e poi da grande darci dentro con un’armatura di rame.

Per chi lo abbia visto il film ricorda una versione più ingenua e favolistica di L’Uomo Fiammifero (che invece aveva una personalità più forte), è un film fieramente campagnolo a colori saturissimi e patina inscalfibile, un trionfo di valori positivi e ingenuità che strizza gli occhi agli adulti e dovrebbero conquistare i più piccoli (pubblico difficile e abituato alla scarsa dolcezza di Jason Momoa e Aquaman). Di certo questo mondo di salopette e campi di grano è filmato senza uno sgarro, cercando una realtà irreale immersa nella provincia che Puglielli declina benissimo in ogni scena, mandando a braccetto musica, fotografia, montaggio e stile narrativo.

È proprio l’idea di partenza in sé, semmai, a far venire più di un dubbio.

Questo film, in teoria dotato di una certa azione (non esagerata ma c’è), indugia tantissimo sulla contemplazione (di sentimenti, di paesaggi con dolly/droni, di tenerezze reciproche) e cerca di stimolare pietà per il protagonista più che partecipazione. Immerso nella mitologia della provincia italiana come riparo dal presente, cerca di unire paradossi difficili da mettere insieme, parla a pubblici eterogenei senza trovare una vera sintesi (tenerissimo da una parte, virile dall’altra, sentimentale ma anche d’azione) e ha il difetto di sbagliare il casting della protagonista. Antonia Truppo sembra infatti molto a disagio nel ruolo della donna angelo idealizzata e amata, e questo si riversa nel film ogni volta che viene inquadrata.

Continua a leggere su BadTaste