Copenhagen Cowboy (stagione 1): la recensione

Nicolas Winding Refn torna nel mondo delle serie con Copenhagen Cowboy, progetto che coinvolge lentamente con un'eroina silenziosa e atipica

Condividi

La recensione di Copenhagen Cowboy, disponibile dal 5 gennaio su Netflix

Nicolas Winding Refn, dopo Too Old To Die Young, torna nel mondo delle serie tv con la fiaba neon e sopra le righe Copenhagen Cowboy.
Dopo l'anteprima sul grande schermo, alla Mostra del Cinema di Venezia, riavvicinarsi al mondo creato dal regista per Netflix in un contesto molto diverso come quello casalingo spinge invetabilmente a riflettere su come l'esperienza visiva possa far cambiare la percezione di un'opera e rendere gli stessi elementi dei punti di forza o, al contrario, dei potenziali difetti.

I sei episodi che compongono la prima stagione di Copenhagen Cowboy seguono alla perfezione lo stile e l'atmosfera che sono il marchio di fabbrica di Refn e, sul piccolo schermo, risultano molto meno meno immersivi e in grado di lentamente conquistare l'attenzione degli spettatori aggiungendo, puntata dopo puntata, dettagli inaspettati e un senso dell'umorismo tagliente.

La trama di Copenhagen Cowboy

La protagonista è Miu (Angela Bundalovic) che viene "acquistata" da una donna che vuole rimanere rapidamente incinta, convinta che sia in grado di portare fortuna e realizzare i desideri. La giovane si ritrova però ben presto alle prese con un mondo criminale fatto di violenza e prostituzione da cui sembra impossibile non fuggire. Miu intraprende quindi un percorso all'insegna della vendetta e della determinazione nel provare a ridare una figlia a una madre, rimanendo sempre sospesa tra freddezza e ricerca di contatto umano. La giovane farà così i conti con uomini più "maiali" che umani, assassini e criminali di vario genere, scoprendo al tempo stesso la propria natura.

Una protagonista silenziosa che sostiene la narrazione

Refn si affida a un team di autrici tutto al femminile - composto da Sara Isabella Jønsson, Johanne Algren, e Mona Masri - per confezionare una narrazione ricca di suggestioni e metafore, mostrate dalla prospettiva di un'eroina atipica e silenziosa. Miu, interpretata in modo volutamento poco espressivo ed estremamente misurato da Bundalovic, si muove in un mondo in cui è sempre una presenza quasi estranea, distaccata ed enigmatica. La giovane, nonostante non esiti a entrare in azione anche mortalmente, sembra più essere interessata a osservare piuttosto che lasciarsi coinvolgere da quanto la circonda, ma non si lascia mai intimorire dai potenziali pericoli quando ha uno scopo e una missione da compiere. Visivamente, inoltre, il personaggio si "fonde" in più di un'occasione, con il contesto in cui si trova, grazie a una costruzione delle scene in cui i confini del blu della sua tuta, e di una giacca che sembra quasi un'armatura di un samurai, appaiono quasi in grado di sparire nelle inquadrature meno ravvicinate. Queste caratteristiche, che sul grande schermo risultano quasi ipnotiche e affascinanti, in un contesto casalingo appaiono a tratti invece colpevoli di creare una lontanza eccessiva con lo spettatore, e la recitazione dell'intero cast non può sfruttare a proprio favore l'atmosfera attenta e raccolta che offre la sala, dove risulta più facile apprezzare le interpretazioni e lasciarsi suggestionare anche dalla colonna sonora.

Una rappresentazione della società esteticamente di grande impatto, ma poco incisiva

Copenhagen Cowboy, pur contenendo scontri spesso brutali e attimi di violenza, non è sicuramente una visione adatta a chi si attende un susseguirsi incalzante di scene d'azione e svolte narrative, e solo al termine della terza puntata si iniziano ad avere a disposizione tutti i tasselli per provare a ricostruire l'intricato puzzle alla base della narrazione e a capire le motivazioni di alcuni dei personaggi.
Refn ritrae la società in modo dissacrante e irriverente, suscitando tuttavia più malinconia che divertimento anche nei momenti più grotteschi. La rappresentazione degli uomini, in particolare, non è mai clemente, passando dall'ossessione per i propri "attributi culturali" al desiderio di possesso, senza dimenticare l'uso sapiente dei grugniti dei maiali, declinando così in vario modo la totale incapacità di provare empatia nei confronti del prossimo dimostrata dai personaggi maschili. Le donne si muovono in questo contesto spaziando da vittime innocenti ad astute manipolatrici, ma le sei puntate fanno più fatica a dare spessore ai personaggi rispetto a quanto si potrebbe sperare - e pensare considerando il talento di Refn - situazione che ostacola in più momenti l'interesse nei confronti degli eventi mostrati sullo schermo che sembrano costruiti più per conquistare dal punto di vista estetico che coinvolgere il proprio pubblico.

Un approccio poco in linea con l'esperienza in streaming

La serie ha qualche problema anche nella gestione della dimensione fantastica presente nel progetto. Tra citazioni di potenziali rapimenti da parte degli alieni, poteri inspiegabili, visioni, "belle addormentate", orchi cattivi, cacciatori e "principesse" da salvare, Copenhagen Cowboy più che un western moderno con sfumature di revenge movie sembra una rivisitazione in chiave moderna e cinica delle fiabe, una versione di Alice nel paese delle meraviglie in cui c'è spazio però solo per l'orrore mentre la protagonista cerca di capire chi è, ribaltando ruoli e situazioni e aggiungendo poi una dimensione spirituale e filosofica agli eventi, fino a un epilogo che getta le basi per una potenziale seconda stagione molto diversa dal punto di vista narrativo.

Difficilmente il pubblico di Netflix, abituato al binge watching e a un certo tipo di prodotto costruito alla perfezione per essere "consumato" in streaming, potrà innamorarsi della nuova fatica di Refn. Sempre vicino a risultare pretestuoso ed estremamente bello da vedere, ma privo di reali contenuti, il nuovo progetto del filmmaker convince e affascina in modo intermittente, lasciando purtroppo il dubbio che si sia cercato di dilatare eccessivamente una storia che avrebbe sfruttato a proprio favore una durata inferiore e un ritmo maggiormente sostenuto.
Copenhagen Cowboy rischia così invece di scivolare presto nel dimenticatoio di molti utenti Netflix, lasciando impresse solo alcune immagini di grande impatto, prive però di qualsiasi trasporto emotivo.

Continua a leggere su BadTaste