Contromano, la recensione

Dopo 16 anni Antonio Albanese con Contromano torna ai suoi toni dolceamari dimostrando di non aver ancora trovato come farli funzionare

Critico e giornalista cinematografico


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Se si guarda a tutta la carriera di Antonio Albanese, dalla televisione fino al cinema, si nota facilmente come accanto alle esplosioni di comicità fisica (quella in cui davvero eccelle, in cui è rivoluzionario sul serio), alle stranezze che portano alla risata per vie impreviste e al gioco sui dialetti e la modifica delle parole, esiste una chiara passione per la malinconia. È qualcosa a cui sembra affezionatissimo e nel cui potere crede evidentemente moltissimo, per quanto non abbia mai trovato davvero come farla funzionare.

Nei suoi primi tre film da regista (Uomo d’acqua dolce, La fame e la sete, Il nostro matrimonio è in crisi) è presente a vari livelli d’intensità e dopo 16 anni in cui ha fatto solo l’attore, ritorna qui. Con la medesima inconcludenza.

Contromano ha una trama da thriller contemporaneo che poteva facilmente diventare un horror molto duro, violentissimo e nero come la pece. Un uomo razzista e xenofobo, un maniaco della precisione, incattivito contro gli extracomunitari ne droga e rapisce uno. Questi si sveglia nel retro di una macchina, legato, mentre lui, eccitato dalle droghe, sproloquia sul riportarlo a casa. Riuscito a liberarsi con l’inganno aggredisce il suo rapitore e lo porta dalla propria fiamma con la quale decide di raggirarlo puntando sull’appeal sessuale di lei, l’obiettivo è farsi davvero riportare in patria ma in due e a spese sue. Ovviamente questi eventi non sono visti con la meschinità oscura e spaventosa propria di un thriller ma con la solare ironia delle commedie. E purtroppo hanno pochissima efficacia, poca capacità di usare la risata (quasi assente) per mettere in mostra meglio le idee che si agitano sotto l'intreccio.

Perché proprio quella malinconia dolceamara a cui Antonio Albanese tiene così tanto impedisce al film di trovare la strada dell’ironia vera, gli leva potenza invece che accrescerne la forza e ne smussa gli angoli. Da metà poi (da quando inizia il viaggio a tre) il film diventa un’altra cosa, i presupposti iniziali scompaiono, il razzista non è più tale e il miracolo finale è dietro l’angolo, una volta arrivati in Africa. Dopo un blocco centrale noiosissimo in cui smette di accadere qualcosa e assistiamo a scene di transizione dopo scene di transizione, Contromano approda al terzomondismo più spinto. In Senegal tutto è stupendo senza vere motivazioni. La serenità conquistata non è spiegata, mostrata o anche solo suggerita con le armi del cinema, è imposta per diritto. Contromano non ci vuole convincere che l’Africa sia un luogo paradisiaco in cui ritrovarsi, pretende che il pubblico ne sia già convinto. Qualche poesia originale africana, qualche detto evocativo e poi ovviamente lo stile di vita autentico e rurale, sono davvero troppo poco per affermarlo.

Nella grande storia delle commedie italiane recenti, fatta di fughe dalla città e dalla tecnologia (cioè dal presente) per tornare nelle provincie (mostrate come fossero la negazione di tutto ciò, ovvero il passato), il viaggio di Antonio Albanese da Milano verso la campagna africana segna un nuovo record quanto a rifugio dal moderno.

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