Confusi e felici, la recensione

Una delle ultime speranze della commedia italiana segna con Confusi e felici il suo rientro nella medietà con tutti i peggiori difetti dei nostri film più svogliati

Critico e giornalista cinematografico


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Lo si attendeva al varco Massimiliano Bruno dopo l'esordio sorprendente di Nessuno mi può giudicare (commedia ben ideata, ben scritta e realizzata, se non bene, almeno con cura), perchè il secondo film, Viva l'Italia, era un progetto così scombinato e iniettato d'ideologia più che di idee da costituire un caso a sè. Confusi e felici, al pari di Nessuno mi può giudicare ha un canovaccio semplicissimo e molto tradizionale (ad uno psichiatra viene diagnosticato un male che lo butta in depressione ma i suoi pazienti, disperati dalla perdita del terapista, si stringono intorno a lui e cercano di aiutarlo) sul quale far ballare i caratteristi. Claudio Bisio ha la parte che gli spetta anche in Zelig (la spalla, il capocomico) e il resto del cast di volta in volta fa il suo numero appoggiandosi a lui.

Anche in virtù di questo dettaglio in Confusi e felici non funziona nulla e la prima cosa a crollare è la trama. Il racconto non scorre, si comprende poco (nonostante la semplicità) e non riesce a dare un'identità chiara ad ogni personaggio poichè ognuno è pronto a tradire la propria maschera per una gag, in questo modo non c'è coerenza e anche il racconto, totalmente privo di fatti, intrecci e avvenimenti che lo portino avanti, diventa un rincorrersi di gag dietro alle paturnie del dottore (il quale sta meglio o ricade in depressione in maniere davvero poco convincenti). Una caduta delle braccia a parte avviene per la storiella d'amore, narrata attraverso un'ingenuità, fatta di arte e poesia, quadri dipinti con musica di sottofondo e cartelloni ammirati con sguardo sognante da dietro una finestra, mai adorabile ma sempre disprezzabile perchè non ci crede nessuno, a partire da chi l'ha scritta, ed è messa in piedi immaginando cosa possa piacere al pubblico più ampio possibile, non cosa sia ben fatto.

La seconda cosa a crollare è il divertimento. Tra le molte cose Nessuno mi può giudicare aveva mostrato un'idea di comicità molto tradizionale ma anche in forma, come se (incredibile a dirsi!) chi aveva scritto il copione ne avesse avuto effettivamente voglia, oltre ad essersi addirittura impegnato per non riutilizzare sempre le medesime gag. Tutto questo è assente. Certo la mancanza di ritmo nel narrare la storia non aiuta ma l'impressione è che anche prese singolarmente le parti di commedia funzionino pochissimo. Lasciate molto all'estro individuale di attori di provata bravura (ma quanto è sprecato nel cinema italiano un genio naturale della recitazione come Marco Giallini??) le gag sono fiacche e stanche, ripetitive e ad un certo punto anche ammorbanti (si distingue solo Caterina Guzzanti, l'unica che cerca di dare una caratterizzazione vera al proprio personaggio e che quindi riesce alla fine a trovare anche piccoli ammiccamenti o microespressioni che facciano il lavoro della commedia). I momenti che non si appoggiano sulla recitazione ma sulla scrittura si contano sulle dita di una mano sola e coinvolgono solitamente gli extracomunitari (vero pallino di Bruno).

Se Viva l'Italia aveva la scusa di un ideologismo ingombrante qui bisogna guardare in faccia il fatto che Bruno sembrava un regista e sceneggiatore migliore della media e che invece in quella media ci sta lentamente scivolando dentro.

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