Concrete Cowboy, la recensione | TIFF 20
Concrete Cowboy conferma il talento di Caleb McLaughlin, già star di Stranger Things, con un dramma dagli spunti originali presentato al Toronto Film Festival 2020
Il romanzo Ghetto Cowboy scritto da Greg Neri è alla base del progetto, presentato al Toronto Film Festival, diretto da Ricky Staub, e fonde un'intensa storia con al centro un adolescente in difficoltà e suo padre con la poco conosciuta comunità di cowboy afroamericani che vivono a Philadelphia.
Cole (McLaughlin) è un quindicenne di Detroit che sta rischiando di rimanere bloccato in un giro di amicizie sbagliate e pericolose. Dopo essere stato espulso nuovamente da una scuola di Detroit, il ragazzo viene portato dalla madre a Philadelphia, obbligandolo a vivere con il padre Harp (Idris Elba), un uomo dal carattere spigoloso, solitario e un po' brusco. Harp preferisce infatti trascorrere il suo tempo tra i cavalli di un maneggio dell'area rispetto che socializzare e Cole inizia ad essere attirato dalla vita delle stalle. Il giovane si riavvicina inoltre all'amico di infanzia Smush (Jharrel Jerome) che, tuttavia, è coinvolto nello spaccio di droga.
L'inaspettata presenza di persone a cavallo in una città particolarmente frenetica e distante dall'immagine dai paesaggi che associamo abitualmente alle storie di cowboy rappresenta già un elemento particolarmente interessante, reso ancora più affascinante dal coinvolgimento di alcuni attori non professionisti che conducono realmente un'esistenza più semplice e in armonia con la natura.
Il difetto principale del progetto è la presenza di alcune situazioni forzate e poco realistiche, costruite con un evidente intento educativo e fin troppo eccessivi nella morale e nell'enfasi dei dialoghi.
Concrete Cowboy sa però costruire un mondo pieno di calore nonostante la durezza della quotidianità in cui sono immersi i personaggi e fa evolvere il rapporto tra padre e figlio in modo emozionante e coinvolgente, non privo di momenti divertenti e inaspettati.
Ricky Staub confeziona un film che si fa progressivamente strada nel cuore di chi assiste a un'evoluzione personale gestita con intelligenza e bravura dal cast e dalla troupe, valorizzata da una fotografia meravigliosa firmata da Minka Farthing-Kohl che regala delle inquadrature poetiche ed epiche al tempo stesso. Nonostante il lungometraggio, in più passaggi, esageri nei toni e costruisca situazioni prevedibili, avvicinarsi nel mondo di cowboy urbani e agli antipodi rispetto ai cult western diventa un'esperienza che lascia il segno.