Concrete Cowboy, la recensione [2]
Concrete Cowboy sembra fare di tutto per guadagnarsi l’etichetta di generico “dramma sociale indipendente”, perdendo in ogni modo in originalità. Quello di Ricky Staub è un film che ci crede ma che non ha metà della poeticità che pensa di avere.
Ci mette tanta buona volontà Ricky Staub, sceneggiatore insieme a Dan Walser e regista esordiente di Concrete Cowboy, nel raccontare la storia della comunità cowboy afroamericana di Filadelfia: una realtà ormai letteralmente coperta dal cemento (concrete), di cui Staub prova a trasmettere il grido d’aiuto e soprattutto la grande volontà di sopravvivenza. Lo fa usando come attori la vera gente del posto; lo fa dipingendo con tenerezza i suoi personaggi, smussandone ogni tipo di imperfezione. Lo fa ribadendo a ogni occasione il suo messaggio: cowboy è uno stato d’animo, e anche se i luoghi scompaiono la tradizione vive nella memoria.
Non si tratta di un western in alcun modo (non bastano certo i cavalli e i cappelli a tesa larga a fare il genere), ma fortunatamente Concrete Cowboy non ha nemmeno la pretesa di esserlo. Ben saldo nel suo terreno drammatico dalla vocazione sociale, il film parla del percorso di maturazione di Cole (Caleb McLaughlin), che dopo l’ennesima sospensione viene obbligato dalla madre a passare l’estate a Filadelfia con il padre Harp (Idris Elba), con cui non ha mai avuto niente a che fare. Harp lavora in una stalla di periferia, ultimo baluardo della comunità cowboy afroamericana della città, che però a breve sarà espropriata. Cole inizialmente rifiuta di farne parte, mettendosi invece in un brutto giro di spaccio. Passo dopo passo però il ragazzo si avvicinerà alla realtà comunitaria e alla mentalità cowboy, ritrovando così non solo la sua famiglia ma anche un modo sano per stare lontano dalla strada.
La profondità manca quindi nella scrittura, che non vede mai le ombre, non cerca mai le sfumature. Ma anche l’occhio continua a desiderare qualcosa che non arriva mai: un’inquadratura evocativa, uno sguardo rivelatorio, una prospettiva diversa. E invece niente: macchina a mano ad altezza personaggi, musica drammatica nei momenti forti, sguardi arrabbiati e il compito è fatto. Oltre alla parola, oltre a ciò che è ripreso, non c’è nient’altro. È tutto lì, in un mondo mono-dimensionale, dove ogni oggetto o ogni corpo esiste solo perché serve a rimarcare un’idea.
Ricky Staub è lontano anni luce dalla mano di Chloé Zhao, che invece la cultura cowboy moderna l’ha raccontata con ben più tridimensionalità (Songs My Brothers Taught Me, The Rider - Il sogno di un cowboy), con la capacità - nonostante le storie non fossero di chissà quale sofisticazione, si noti - di narrare per immagini in modo comunicativo. Staub è invece troppo timido, troppo incerto; mantenendosi lontano dal rischio, offre un quadro semplicistico. Tutto il contrario di quello che invece si auspicava.
Cosa ne dite della nostra recensione di Concrete Cowboy? Scrivetelo nei commenti dopo aver visto il film!
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