Come sono diventato un supereroe, la recensione
Nonostante non brilli certo per originalità di trama e sviluppi, Come sono diventato un supereroe ha il merito di misurarsi con grinta e faccia tosta con il modello supereroistico
È evidente il potenziale seriale di Come sono diventato un supereroe. Non solo per un finale che è anche un’apertura, ma perché fa della costruzione di un mondo “speciale” e delle sue dinamiche il suo obiettivo principale. Un poliziesco vestito da film di supereroi, o meglio un film di supereroi vestito da poliziesco: il regista esordiente Douglas Attal si diverte a mischiare generi, riferimenti e prototipi. Il risultato non è affatto male e nonostante non brilli certo per originalità di trama e sviluppi (che anzi sono sempre piuttosto prevedibili), Come sono diventato un supereroe ha il merito di misurarsi con grinta e faccia tosta con il modello supereroistico, ormai appannaggio degli americani.
Il film è ambientato a Parigi e ha per protagonista il poliziotto svogliato e goloso di caramelle Gary Moreau (Pio Marmaï). Il mondo è pieno di persone con dei poteri e che non sono per forza supereroi (quest’idea, per quanto banale, è molto bella): alcuni li usano per diventare famosi, altri per regolare dei conti, altri semplicemente li nascondono. Da quando una droga permette a chi non ha i poteri di svilupparli, la città vede un’impennata di criminalità e di violenza. Sarà proprio compito di Moreau, assieme alla nuova collega Cécile Schwartzmann (Vimala Pons) e a due vecchie conoscenze “speciali” smantellare il cartello della droga e riportare la pace per le strade.
La scelta di utilizzare Parigi, di identificare chiaramente la città, ci crea forse delle aspettative che vengono disattese. Se poco importa non riconoscere visivamente le strade (anche se la Tour Eiffel si vede un paio di volte) ciò che manca è proprio un’attenzione al dettaglio. C’è una freddezza generale che, sebbene avvicini il film al suddetto standard, svuota di profondità e di particolarità il film. Insomma, l’impressione è quella che se il film fosse stato ambientato a New York o Los Angeles non sarebbe cambiato assolutamente nulla. Cos’è si vuole raccontare di Parigi? Che differenza fa raccontare questa storia in questi luoghi?
La regia di Douglas Attal va spedita come un treno, sicura e centrata. I combattimenti sono convincenti, il ritmo è ben ponderato. Tutto è giusto, c’è anche una buona dose di comicità. A fronte di un’identità e di un’originalità forse un po’ confusa (o magari l’intenzione era proprio essere ambigui?), Douglas Attal mostra comunque una naturalezza e una fluidità di sguardo evidenti e che riescono a far passare sopra alle questioni di pura poetica autoriale.
La cosa veramente deludente, o meglio, la nota stonata, è la storia in sé. Tutto va esattamente come ci si aspetta, da copione, ma soprattutto non si riesce a cogliere quale sia l’idea che controlla il film, ciò che vuole comunicare. Un bell’esercizio, sì, ma piuttosto fine a sé stesso.
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