Come play, la recensione

Come play tuttavia sebbene abbia molte buone intuizioni e regga bene la tensione si lascia scappare la mano caricando di fin troppi significati il suo mostro e i suoi schermi

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Come play, la recensione

Che gran peccato: ci stava andando piuttosto vicino Come play di Jacob Chase al raggiungimento del perfetto equilibrio metaforico. Si tratta di quella capacità dell’horror di mettere a nudo le nostre paure più profonde attraverso mostri e dinamiche che le incarnino, proponendo non solo rappresentazioni più o meno fantasiose ma soprattutto possibili riflessioni e, talvolta, anche risposte. Esattamente quello che aveva fatto Jennifer Kent con Babadook suggerendo di accudire il mostro incancellabile del lutto rinchiuso in cantina. Ed è quello che prova a fare in modo molto simile Come play raccontando l’isolamento sociale e comunicativo di chi vive nella bolla dell’autismo. Come play tuttavia sebbene abbia molte buone intuizioni (che partono dall’incorporare questo isolamento nel dispositivo tecnologico) e regga bene la tensione si lascia scappare la mano caricando di fin troppi significati il suo mostro  e i suoi schermi, offrendo così una risoluzione che non riesce a parlare in modo chiaro dei suoi stessi interrogativi.

Proprio come in Babadook anche qui il protagonista è un bambino con gravi problemi comunicativi e il mostro viene evocato da una lettura. Il piccolo Oliver (Azhy Robertson) soffre infatti di autismo non verbale e riesce a parlare soltanto usando un’applicazione che ne riproduce la voce. Da quando sua madre ha litigato con quella del suo amico è diventato un bambino solo e passa le giornate a guardare SpongeBob sul cellulare. La madre (Gillian Jacobs), nonostante l’amore incondizionato, non riesce in alcun modo ad instaurare un contatto come invece fa il padre (John Gallagher Jr.). Tutti i nodi vengono però al pettine da quando un giorno sul telefono di Oliver compare l’inquietante lettura del “mostro Larry”: la presenza comincia a perseguitare la famiglia attraverso qualsiasi schermo e, facendosi via via più reale, cerca di raggiungere Oliver per diventarne amico… ad ogni costo.

Jacob Chase, qui sia unico sceneggiatore che regista, parte con le idee molto chiare. Si tratta di rinchiudere Larry, metafora palese dell’isolamento dato dai dispositivi, all’interno dei device. Il collegamento si crea subito senza farsi necessariamente ridondante: tra le soggettive del cellulare con cui il mostro spia Oliver e la possibile localizzazione dell’inquietante presenza unicamente tramite fotocamera (e perché no, anche attraverso filtri di riconoscimento facciale alla Snapchat) Chase pone la sua equazione visiva e costruisce la sua ottima tensione. La prima parte, quella in cui cerchiamo di collegare tutti gli elementi, sebbene non spicchi per capacità terrorizzanti è comunque ben calibrata, attentissima all’uso del sonoro e al calcolo delle pause. Tutto fila liscio, la mano e l’occhio di Chase sono sempre fermi, semplicemente giusti. Ma forse è proprio questo che rende Come play via via meno comunicativo.

Non solo infatti la metafora si accartoccia sempre di più diventando qualcosa di più ampio che ha a che fare con la colpa materna e l’incomprensione; non solo la dinamica con cui Larry si muove, cioè attraverso anche l’elettricità (e quindi le lampadine) fa vacillare la premessa del mero dispositivo. È che man mano che la situazione richiede di mostrare, spiegare e palesare tramite le immagini, in modo espressivo e marcato, Chase si tira indietro e lascia che la storia prenda il sopravvento sullo sguardo. Non è più lo sguardo a fare la storia ma è questa che lo plasma, riducendo il tutto a un’osservazione sempre meno veicolata e sempre più anonima e confusa. Neanche il brivido di un jumpscare: anche la paura, ormai, è un ricordo lontano.

Nonostante le sbavature non indifferenti, Come play è un film il cui potenziale poetico è sempre ben in vista, in cui la rappresentazione dell’autismo e delle difficoltà di chi deve affrontarlo è sempre al centro di ogni movimento. Il nucleo è proprio lì, davanti a noi, solo che Chase paradossalmente ci lascia sempre qualche passo indietro. Ad immaginare troppo e a vedere troppo poco.

Cosa ne dite della nostra recensione di Come play? Scrivetelo nei commenti dopo aver visto il film!

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