Comandante, la recensione | Festival di Venezia

La storia del Comandante Todaro cerca di fare quello che il cinema italiano non fa mai: unire eroismo canonico e spirito nazionale

Critico e giornalista cinematografico


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La recensione di Comandante, il film di apertura della mostra del cinema di Venezia

Ci sono due cose che tradizionalmente il cinema italiano tiene separate: l’eroismo e la rappresentazione dello spirito nazionale. Quando raccontiamo figure che possiamo definire “eroi” sono solitamente anticonformisti che si battono contro lo stato o l’opinione pubblica per ideali avanti rispetto al loro tempo o per la giustizia, ma sempre in modi che non rappresentano gli altri; quando invece raccontiamo noi e come siamo fatti, solitamente è attraverso personaggi medi o mediamente vili, molto umani (quello sì) ma anche piccini, spesso pieni di difetti e per questo in fin dei conti così amorevoli. Comandante prova a unire le due cose e per farlo questo eroismo canonico italiano lo deve creare da zero. Significa che lo deve scrivere Sandro Veronesi (che sceneggia il film con Edoardo De Angelis), lo deve mettere in scena De Angelis (trovando le soluzioni che elevino l’azione) e alla fine Pierfrancesco Favino deve trovare una maniera di rendere questo mix coerente e non contraddittorio con la recitazione (senza imitare gli eroi americani e senza sembrare ridicolo). Per questo Comandante è un film di fondazione. Fondazione di un immaginario.

Questo film di sottomarini che vuole effettivamente fare cinema di sottomarini (una scena con le mine subacquee ad esempio è un classico del genere: la minaccia per l’imbarcazione e il singolo che va a rischiare senza esitazione la propria vita per la salvezza di tutti) racconta la vera storia di cosa accadde al comandante Todaro quando affondò una nave belga e invece di abbandonare in mare i sopravvissuti li trascinò per due giorni fino alla terraferma, navigando in superficie con tutti i rischi del caso e in aperta disobbedienza alle regole d’ingaggio fasciste. È un film di guerra, sa di esserlo e quel genere lo rispetta davvero. Sa anche bene che i suoi personaggi sono dei militari fascisti, che hanno quell’etica in testa e che sono imbevuti di quei valori. Non mente, non edulcora quella parte e non ci prende in giro. Non finge siano tutti progressisti e amorevoli, ma fa la cosa più difficile: trova in quella mentalità di guerra, di affondamento, di sparare per uccidere e sentirsi migliori degli altri proprio per il coraggio di fronte alla morte (come capiamo da un discorso iniziale), l'esatto opposto del fascismo: un fondo di umanità molle, tollerante, rispettosa della dignità delle persone, compagnona e divertita. Tutte le caratteristiche che attribuiamo allo spirito nazionale.

E del resto il punto del film è umano: affermare che le persone si salvano e non si abbandonano alla morte, che “abbattiamo il ferro ma salviamo gli uomini”, solo che invece di gettarsi su questo assunto dandolo per scontato, parte dall'opposto, dal militarismo e lo costruisce con una serie di passaggi ben distesi così che ogni singolo spettatore, e non soltanto i già convertiti, ci arrivi per gradi. Tutta la primissima parte del film mostra l’ossessione e il terrore per la morte che esiste in queste vite, come sia l’opposto dell’eros e uno spreco della vita, poi vediamo la tragedia della morte di personaggi a cui ci ha affezionato e così quando siamo davanti alla possibile morte degli “altri”, il gesto di umanità di Todaro è carico di senso, è auspicato, è necessario. In parole povere Comandante usa tutta la sua prima parte, quella con più azione, tensione e sentimenti forti, non solo per intrattenere (e viva la faccia!) ma anche per essere sicuro che tutto il pubblico arrivi alla seconda parte con le stesse sensazioni.

Tutto quanto è però alla fine riassunto nel protagonista, come in fondo dice il titolo. Comandante crea un personaggio titanico per misurare su di lui quel matrimonio tra eroismo e spirito italiano. Todaro è affascinante, carismatico, pieno di credenze pagane, fa yoga, è simpatico e apparentemente privo di difetti, è una figura totalmente idealizzata, il capitano da seguire in capo al mondo. E se è così è perché Pierfrancesco Favino, come spesso gli capita, ha capito in che film si trova. Perfettamente. Ha capito che per Comandante l’interpretazione che serve non si misura sul piano dell’intensità o della profondità ma su quello del carisma. Una volta creato e ottenuto quello può dare un senso al personaggio, può convincere il pubblico che questa figura idealizzata e titanica sia il simbolo di qualcosa. E il carisma lo si può scrivere, certo, ma ad un certo punto qualcuno deve recitarlo. In Favino questo concetto si apre a mille sfaccettature e contamina ogni attimo, è il carisma del comando netto e dei discorsi duri, quello del sapere sempre tutto prima di tutti ma anche dell’incredibile affabilità, di una simpatia da spogliatoio, dello spirito di gruppo e di una compassione potente. Facile farlo recitando frasi importanti sotto le bombe o risolvendo situazioni gravi, difficile è creare il carisma amorevole mangiando gli gnocchi e facendo una battuta che non fa ridere per niente e per questo è umanissima.

Se ci può essere una strada per fare film di guerra italiani non sarebbe per nulla sbagliato percorrere questa.

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